15 Febbraio 2018

PENS: Poesia Contemporanea e Nuove Scritture – recensione a Luogo del sigillo di Alfonso Guida a cura di Alessio Paiano:

 

Passione e lucidità in «Luogo del Sigillo» di Alfonso Guida

Scritto da Alessio Paiano 

 

Proporre un commento a Luogo del sigillo (Fallone Editore, collana “Il Drago Verde”, 2017), ultima raccolta di Alfonso Guida, vuol dire imporsi alcune esigenze di metodo: la più urgente sarà quella di non considerare il dato biografico come principale elemento ermeneutico; allo stesso tempo un’operazione di ‘insabbiamento’ del periodo di ricovero vissuto da Guida nell’ospedale psichiatrico di Policoro, sarebbe, anch’esso, un imperdonabile errore di superficialità, ma il centro dell’indagine deve rimanere, in ogni caso, la poesia. Così scrive Michelangelo Zizzi nella Prefazione: «Alfonso Guida è la vendetta della poesia sulla biografia»,[1] invitando il lettore a considerare il momento della scrittura come ‘atto’, o tentativo, di riformulazione dell’esperienza.

Da ciò ne deriva una peculiare ‘lucidità’ con cui Guida tenta, in un’insistente nominazione, di condensare nella parola la sua esperienza; ciò si registra soprattutto nella prima metà del libro, mediante la descrizione di vari elementi paesaggistici, da cui fuoriesce una fitta catalogazione botanica; a questa indagine silenziosa si oppone l’esperienza dolorosa, seppur esaltata nella sua cruda umanità, degli altri soggetti che popolano l’ospedale. Per questo la scrittura poetica, che è in primis esercizio di isolamento, consente al poeta uno sguardo consapevole sul reale, che possa tracciare un particolare limes mentale; come ha scritto Enrica Fallone, «in netta contrapposizione all’elogio tutto postmoderno della follia» e, secondo Michelangelo Zizzi, «non aderendo al copione del poeta malato e solitario»[2], la poesia di Guida ne evidenzia invece «la lucidità del chirurgo e l’indifferenza del cronista»[3].

Se Luogo del Sigillo è stato accostato all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters per «la sequenza dei ritratti umanissimi e tragici»[4], bisogna considerare un dato fondante: la voce narrante nell’Antologia è costituita dagli stessi personaggi che, rivolgendosi agli altri abitanti del villaggio, instaurano un particolare rapporto dialogico con il lettore; tutta la costruzione del poema permette all’autore di condannare e giudicare la «piccola America», una «formicolante commedia umana»[5], secondo Pavese, dove l’autore pare «sottintendere una stoica indignazione, un appello a una possibile più vera coscienza umana»[6].

In Luogo del Sigillo la scrittura opera, invece, come ricostruzione poetica in prima persona, esclusivamente a stretto contatto con la realtà, e all’interno di un dualismo narrativo che, se consideriamo l’opera nella sua totalità, appare anche strutturale: alla prima metà del libro, incentrata sull’incanto, a volte addirittura ‘paradisiaco’, della natura, segue una seconda parte sull’’infernale’ situazione dei ‘dannati’. Tra questi due poli il poeta pare cercare una distanza, in un personale spazio ‘limbico’, dopo aver compreso l’inutilità sia dell’indagine analitica «nei labirinti» della mente umana (l’Inferno), sia del passare del tempo e della «porca stagione» (l’’inganno’ leopardiano della natura); non aspettarsi nulla, quindi, neanche dalla scrittura, scrive Guida, «un pigro viaggio tra realtà infagottate»:

[…] Ci hanno messo una

croce d’olio in gola. Abbiamo indagato

nei labirinti le presenze umane

dovuti agli uragani della specie.

Nulla ne è uscito. Solo un pigro viaggio

tra realtà infagottate: un libro, le iridi

vuote, una porca stagione, l’eccetera

del male che strofina le tue guance. (p. 35)

In Luogo del Sigillo, agli antipodi della recitazione declamatoria e teatrale di Spoon River, pur accennando a una coralità nelle sporadiche intromissioni degli ‘abitanti’ di Policoro (in corsivo nel testo), non si instaura mai un totale distacco tra il poeta e le altre voci; quest’ultime appaiono come rivelazioni quasi epifaniche dell’Io-lirico, soprattutto analizzandone la continuità di stile: «[…] Decompongo io il fastidioso/ dramma del centenario che ancora mi/ vive nel grembo – dice questo e sgraffia/ la pelle delle braccia, vaneggiante,/ come una cripta» (p. 54). Né potrebbe essere diversamente considerando che la scrittura di Guida è caratterizzata da una preziosa cura formale e lessicale: il verso, costruito rigorosamente sull’endecasillabo, presenta un ritmo fluido, ma allo stesso tempo ‘zoppicante’, con la presenza di improvvise e insistenti frasi minime: «[…] Era enfatica. E l’enfasi del/ dramma tramutava in idillio il giorno/ col sole e le rondinelle avvinghiate ai/ lampioni. Non capivo. Ora nei suoi nervi c’era l’ombra terrestre dei fatti» (p. 40). Uno stile, secondo Zizzi, che pur presentandosi come «prosa descrittiva», rimane «senza intreccio» e caratterizzato da «l’inusuale scarsità della metafora e la preferenza metonimica»[7].

A questi personaggi il poeta dedica quasi la metà delle poesie di Luogo del Sigillo, in cui si struttura un rapporto solidale e partecipe a un «pianto comune» (p. 33), che può trasparire anche dall’attenzione verso dettagli umilissimi, come i ‘sandali’ di uno dei personaggi: «[…]Francolino infuocato/ nei tuoi ventunanni il pensiero cede/ la verticalità dei morti all’eco/ di un sorriso e lì dentro, nei gorghi, mi/ cresce forte la pietà dei tuoi sandali» (p. 29). L’immagine dei ‘sandali’ è uno dei vari elementi nel libro che rimandano alla figura di Cristo, citato già dalle prime pagine; al tema della Passionee del «martirio» (p. 4) Guida associa se stesso e gli uomini di Luogo del Sigillo: «ma noi non siamo altro/ che un Cristo miserando» (ibidem), oppure «Torremozza è il primo chiodo che sento/ parlarmi a notte, un chiodo conficcato/ nella nuca, strappato da una croce/ nel cui legno la primavera sboccia» e, nella stessa poesia, «il tempo/ passa leggero e il sonno stanco è pieno/ di fantasmi e non baciamo il Getsemani» (p. 5); in un’altra poesia alla luminosità ‘scarnificante’ della luce si contrappone la consapevolezza che «[…] torneranno/ le spine a farci girotondo» (p. 28; ricordiamo anche l’immagine della «croce d’olio in gola» nei versi citati sopra). La fede non è considerata solo come elemento simbolico e ‘mitico’, ma ricorre frequentemente nei versi più descrittivi, esacerbandone l’aspetto drammatico e patetico: «[…] Dicevano/ fosse una demente religiosa, la/ croce, le immagini dei santi, un mite/ rosario maggengo» (p. 31), oppure «[…] Era il tuo giardino di pesche, Rocchino, la chitarra, era il tuo cielo/ fatta fede, sei scomparso per sempre» (p. 41).

Tuttavia l’esperienza collettiva del ricovero, pur assumendo i connotati di un «pianto comune», non diviene mai il vero nucleo tematico del libro; in primo piano rimane sempre lo sguardo del poeta, e i componimenti più densi sembrano proprio quelli della prima metà, dove si concentrano le descrizioni poetiche, fortemente visive, dell’ambiente e della vegetazione in particolare; si susseguono «le zagare appena/ spuntate sotto l’ombrello di rafia,/ l’ombrello coricato in mezzo al campo, gli aranceti smessi» (p. 22), «la crescita furente dell’ibisco» (p. 23), «la cecità incandescente e forastica/ di una vigna» (p. 24). Elementi che possono intervenire nel testo per stabilire un contatto con altri autori, come accade con il «melograno» nella poesia dedicata ad Amelia Rosselli, tra le primissime fonti di ispirazione (insieme a Celan) di Guida: «Ora che un melograno cresce sulla/ tua pietra, io poso la guancia sull’erba,/ sento vicino il rumore fragrante/ dei tuoi steli» (p. 2); la stessa immagine, in chiave decisamente più violenta, ricorre in Amelia Rosselli: «Confìdati/ presto perché sembri, tutt’ora un accecamento/ periglioso nel tuo, disfacendo la melagrana,/ armonico prospetto: unghia uguale alla/ carne se non ti spari» (da Serie Ospedaliera[8]); l’accostamento pare più evidente considerando il riferimento alla ‘chiusura’ del poeta in se stesso, che in Guida avviene nell’atto fisico di ‘posare’ la guancia sul terreno, mentre in Rosselli appare nella condizione di ‘accecamento’ di chi non riesce a guardare oltre stesso. Se Amelia Rosselli avrebbe poi sancito una totale resa nella raccolta Documento, con la desolante constatazione: «Cara vita che mi sei andata perduta/ con te avrei fatto faville se solo tu/ non fosti andata perduta»[9], l’incipit di Luogo del Sigillo tuona così: «Non avrai niente. Solo un po’ di cielo,/ la quieta solitudine dei vetri» (p. 1); ma interrogando se stesso con questi versi, nella stessa poesia, Guida non vuole arrendersi a una chiusura totale, né decretare immediatamente la sua sconfitta:

[…] stai fermo

proprio adesso che la pioggia ha sfiorato

la tua testa e il Nulla, tra le ossa nere

dei fiori morti, indietreggia, oscurando

la tua storia, i tuoi giorni, è questo che vuoi? (p. 1)

Luogo del Sigillo si configura, infatti, già dal suo titolo, come poesia del ‘dentro-fuori’, in cui si alterna l’esperienza personale del poeta alle lucide, e a volte terribili, descrizioni degli altri pazienti; ma il limes, oltre che mentale, è anche fisico, e si instaura una tensione percepita sia dal poeta che dagli altri verso il ‘mondo’ che è al di là dell’ospedale di Policoro. Questa condizione assume i contorni di un’epica prigionia, in cui si nomina una misteriosa figura del «custode» (p. 32), mentre le infermiere sono «le Orche che chiamano/ per nome il nostro sonnifero amaro,/ gigante – bisogna tornare, il cibo/ le tazze, l’ossessione del confine» (p. 42).

L’«ossessione del confine» è il risveglio della consapevolezza di un mondo ‘fuori’, che può diventare ‘tragedia’ per uno dei ricoverati, ritratto al pari di uno stoico greco quando dichiara: «Ovunque, proprio ovunque/ sorge la mia patria, e lo dice, amaro,/ non rassegnato, un pianto trattenuto,/ sa che non tornerà mai più a Torino» (p. 44). Ogni tentativo di superare il confine pare impraticabile, e il ricovero adesso assume davvero i connotati di una prigionia, di una libertà negata:

Siamo giunti fino ai cancelli dove

tre guardiani baffuti e circospetti

ci hanno fatto cenno di tornare oltre

la faggeta che avevamo lasciato

prima di avventurarci nel giardino

cercando qualcosa, un corpo, un’assenza. (p. 39)

In questa situazione di immobilità si staglia l’immagine di Torremozza, simbolo della ‘lontananza’, emblema dell’’isolamento’ rispetto al mondo ‘fuori’. Se Zizzi accosta la poesia di Guida ai «luoghi mortuari ma splendidi di Yeats»[10], l’immagine della torre non può che richiamare le visioni emblematiche del capolavoro del poeta irlandese, intotolato proprio La Torre; ma la figura della torre delinea anche passaggi e ‘abbandoni’, come nell’Ulisse dell’altro grande irlandese, James Joyce, il quale inizia proprio con l’allontamaneto, da parte di Stephen Dedalus, dalla Torre di Sandycove; metafora, in quest’ultimo caso, dell’abbandono dell’adolescenza, ma anche inizio dell’esilio dal paese natio, l’Irlanda[11]. Torremozza, dunque, ergendosi a metà tra ’apparizione’ e ‘meta’ abbandonata e irraggiungibile, rappresenta tutta la tragica ambiguità di Luogo del Sigillo, tra desiderio di evasione e drammatica consapevolezza di una separazione tra due mondi; è l’emblema anche del tempo trascorso, degli anni definiti «cruenti»; Torremozza ricorda un immenso campanile all’orizzonte, un orologio senza lancette:

[…] è un gioco

rammentarsi, o dover scegliere gli anni

prima di andarsene, gli anni apostolici,

gli anni ossuti, cruenti, gli anni che fanno

l

a nostra tenerezza, il vuoto nero

dell’abisso, Torremozza era questo. (p. 21)

Se nei versi già citati Torremozza è «il primo chiodo che sento/ parlarmi a notte», una figura quindi ossessiva, in altri momenti la stessa assume i contorni di un Eden perduto: «Torremozza/- torna come una conchiglia sotterranea/ nel cui olfatto gli insetti hanno costruito/ la crudeltà amorosa dello Jonio» (p. 19), ma è anche il luogo dove trionfa la vegetazione circostante: «Da quassù Torremozza/ resta ferma tra gli appartamenti jonici/ dove i colori sgargianti e selvatici/ frammentano la visuale rotonda dei pinastri, dei tigli» (p. 27). Torremozza torna poi a essere un «fosco pianeta notturno» (p. 35) e, in antitesi, «un lungo paradiso di echi palustri», ennesimo richiamo teologico; pare, infine, tornare il simbolo della ‘croce’, quando la vista di Torremozza fa riemergere il «dolore che tutti ci toccava» (p. 38). Una continua ambivalenza, irrisolvibile, che lo stesso Guida indica due volte: quando Torremozza è definita la «fascinazione della morte, il terrore di esser vivo» (p. 33), o in questo passaggio, in cui è denominata ‘matrice’: lo stesso mondo ‘fuori’, a cui si guarda con nostalgia, è sia la «concezione» (l’ideale ritorno a cui tendere), che il punto di «concepimento» del dolore:

Ramo lordo che pesi sulla testa

c’era la placenta di un uccello. E tu

pensavi fosse la luminescenza

rosseggiante degli occhi ancora pieni

di sonno, lo iodio riverberato, una

croce d’oro sganciata da una vecchia

catenina. Invece, mia eco, mio niente,

Torremozza non fu che una matrice:

concezione e concepimento. (p. 19)

Luogo del Sigillo non è il romanzo di un’esperienza di ‘formazione’, né la celebrazione di una guarigione, ma della sua fragile precarietà, dolorosamente conquistata e difesa. Così avviene nell’immagine finale e antitetica (di memoria joyciana anche questa) della «neve» che dorme sul fuoco, elementi in cui si condensano due opposti: passione e lucidità.

Ero in un vagone buio.

Fuori passava la neve e il fuoco. Ora

più semplice a dirlo: in quel buio, quella

notte, la neve dormiva sul fuoco. (p. 68)

[1] M. ZIZZI, Prefazione ad A. GUIDA, Luogo del Sigillo, Fallone Editore, collana “Il Drago Verde”, Taranto, 2017, p. VII

[2] M. ZIZZI, Prefazione ad A. GUIDA, Luogo del Sigillo, cit., p. XV.

[3] E. FALLONE, Nota dell’editore in A. GUIDA, Luogo del Sigillo, cit., p. 70.

[4] Dal sito di Fallone Editore.

[5] C. PAVESE, La grande angoscia americana, «L’Unità», Torino, 12 marzo 1950, in ID., Saggi letterari, Einaudi, Torino, 1951, p. 71.

[6] ID., Il poeta dei destini, in ID., Saggi letterari, cit., p. 64.

[7] M. ZIZZI, Prefazione ad A. GUIDA, Luogo del Sigillo, cit., p. XIX.

[8] A. ROSSELLI, Serie Ospedaliera, in EAD., L’opera poetica, collana «I Meridiani», Mondadori, Milano, 2012, p. 234.

[9] EAD., Documento, EAD., L’opera poetica, cit., p. 340.

[10] M. ZIZZI, Prefazione a A. GUIDA, Luogo del Sigillo, cit., p. XV.

[11] G. MELCHIORI, Note a J. JOYCE, Lettere e saggi, Il Saggiatore, Milano, 2016, p. 975.

 

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