Su Santa Croce di Magliano online due recensioni di Breviario delle aberrazioni di Michele Paladino, uscite il 24 e il 25 Maggio.
A proposito del “Breviario” di Michele Paladino
La poesia non ha mai cambiato il mondo. Non ha mai avuto simile pretesa. Ma forse cambia chi la scrive e quei pochi che la leggono. La poesia scritta e pubblicata è piccolo testamento, essenziale e ha un significato profondo in quegli spazi bianchi che lascia sulla pagina. Puoi aprire un libro di poesie come se fosse un viaggio. Conosci la stazione da dove parti, il resto è scoperta e illuminazione. Una parola in poesia ha significato diverso se quella stessa parola la usi per andare al supermercato o dal fruttivendolo per le verdure. Ho incontrato spesso fiori di poesia nel mio cammino e l’ho amata come si può amare una donna che sai non sarà mai tua. Nel senso che capisci nell’esatto momento in cui sei lì a viverla che non ti potrà mai cambiare gli eventi, la vita in generale. Nei miei anni a Urbino ho conosciuto poeti e persone che parlavano di poesia. I poeti sono piccoli elefanti costretti alla rete degli zoo. Per lo più dormono su paglia umida e aspettano il mangiare. Guardano i visitatori e forse non capiscono. Sognano torrenti, distese di terra, ombre sicure. Ma restano lì a sognare. Quelli che li raccontano i poeti ne parlano sempre con quella dolcezza che sembra una condanna. Ne parlano come di qualcosa lontana, dolcezze senza tempo. Quelli che raccontano i poeti (o comunque quelli che io ho conosciuto) sanno perfettamente che di poesia non si vive. Il poeta ha sempre un altro lavoro o qualcosa di simile per sbarcare il lunario. La poesia è un di più, come una seconda casa al mare. Sai che ce l’hai e ci vai solo ad agosto. Il resto del tempo l’affitti per non morire del tutto. Ho conosciuto Gualtiero De Santi, mio professore di Letterature Comparate, e mi piaceva come mangiava il gelato alla crema al tavolo del bar e non finiva mai di parlare di Pasolini, Edmond Jabès, Montale e altri. Ne parlava come con rispetto e sottovoce. Parlare dei poeti non interessa a nessuno e si fanno solo brutte figure. Sono davvero un genere umano a parte. Coraggiosi e persi in partenza. Scriverlo poi davvero un libro di poesie, tutte poesie, è un atto sinceramente rivoluzionario. Ricorda un po’ Fidel Castro a Cuba quando con pochi morti di fame sconfisse non solo Batista ma tutto l’Occidente, Stati Uniti soprattutto. Nessuno poteva immaginare. E invece…
Questo “Breviario delle aberrazioni” di Michele Paladino – che nasce a Termoli semplicemente per motivi logistici – io me l’aspettavo da tempo. Questo libro di poesie, appunto, è un parto finito bene che cova da tempo nel sangue di chi lo ha concepito. Intanto il titolo, che già è una piccola poesia. In genere e solitamente un breviario è un libricino/guida che i religiosi portano con se’ per non dimenticare le preghiere della giornata. Un vademecum insomma. Le aberrazioni, poi, dovrebbero rappresentare le negatività che mai dovrebbero accadere o succedere (Hitler ad esempio). In fondo un breviario siffatto dovrebbe ricordarci le cose da non fare nel corso dell’esistenza. Ma le aberrazioni cui fa riferimento Paladino non sono certo quelle che lui descrive in maniera sublime nelle sue poesie. Sono, invece, tutte quelle che proprio la sua poesia rimanda e non scrive. Nel senso che quello che scrive è salvezza, perché parola purificata. Non ha senso leggerla isolata, ma va letta unita ad altre parole che ne cambiano il senso e il significato. Tecnicamente queste poesie hanno padri definiti e sono il frutto dell’infinita e spasmodica abitudine alla lettura. Guai se così non fosse. Ma il tutto è filtrato dalla sensibilità dell’autore e dalla sua predisposizione alla scrittura poetica che è magica e di ottimo livello. Insomma io ci vedo in questa raccolta un tentativo di felicità che forse non arriva. E non è un tentativo fallito, si badi bene. I tentativi non falliscono mai semplicemente perché già provarci a capire, già provarci a saltare rappresenta una vittoria sul tempo e sul quotidiano. E il tutto in perfetta solitudine. La poesia di Paladino ha questo di bello: che pur se dolorosa, che trafigge, non trasmette dolore ma dal dolore purifica. In fondo è un miracolo. E la poesia questo dovrebbe essere: miracolo. Penso a Leopardi e ai suoi versi. Tutti dicono tristezza ma mentre le leggi un benessere ti invade e ti riempie il cuore. Così proprio. Ti riempie il cuore. E queste poesie del breviario a me hanno prodotto esattamente questo: mi si è riempito il cuore. Non capisco esattamente di cosa o perché. Ma è questo l’effetto che mi ha prodotto. E mentre leggevo stranamente provavo un piacere bellissimo, come quando ti tuffi nel mare in una giornata di calura assurda. Le poesie di Paladino mi sembravano il mare, un mare freschissimo. E il mare, si sa, è infinito.
Così la poesia di Michele Paladino diventa essenza, distillato della lingua scritta, che non è mai lingua parlata. E’ anche un gioco, tecnico ed estremo, scrivere poesia. Ed è un divertimento. Paladino lo sa bene, credo. Nel senso che lui si diverte con il lessico, ci gioca, come quando porta a spasso il suo pastore tedesco. Uguale. E non è detto che ne capisci il senso sempre. A volte ti sfugge ma, per magia, è proprio quel non capire che ti affascina e ti ruba l’anima. È sempre mare, in ogni caso. Azzurro certo ma anche notturno quando invece di vederlo lo senti come se fosse canzone. Il rumore del mare, dico. È come se fosse poesia. E lo è. In fondo la poesia non è altro che un riemergere dagli abissi e crearne altri di abissi. Se ti salvi, dopo, sei più pulito. E per pulito intendo vero. Come rinascere. Sia quando scrivi che quando leggi.
Penso a Rimbaud. Alle sue stagioni. Alla sua vita. Perché mai il più grande poeta moderno, adolescente, decide di non scrivere più e dedicarsi ad altro? Perché mai raggiunge l’Africa e si dedica a mestieri disumani, feroci, da galera? E poi le malattie, l’amputazione delle gambe? La morte. Perché non scrive più? Perché la poesia è un viaggio senza ritorno e sei hai la sventura di incontrarla ti porterà oltre i confini del plausibile. Non cambia il mondo. Come non lo ha cambiato Leopardi o Montale o Elliot. Il mondo lo cambia l’economia politica. E per mondo intendo il quotidiano, la vita, l’inutile insomma. Cambia però la sua percezione, di come lo vedi il mondo. E in questo senso non sempre è la scelta migliore. La poesia, intendo. Non è la scelta migliore perché non sei stato tu ad averla scelta ma lo ha fatto lei. La poesia sceglie i poeti, mai il contrario. Paladino, in questo senso, è stato scelto. Un dono, celeste e metafisico. In questa sua prima opera ho amato il suo saper mettere insieme le parole, le frasi che frasi non sono. In questo Breviario delle aberrazioni ho amato soprattutto quei versi che sono preghiere. Io lo vedo davvero una preghiera questo primo lavoro di Paladino. Una preghiera a un Dio difficile, a volte cattivo, ma un Dio che non ti salva. Un Dio che forse vuole salvarsi lui. Ma sempre di un Dio si tratta. La prima opera di un poeta è sempre un modo di confessarsi. E questo breviario, sotto sotto, è proprio una confessione e ha qualcosa di divino. Ce l’ha. Il bello della poesia, compresa quella di Paladino, è che puoi tenerla in libreria per molto, poi, all’improvviso e in un qualsiasi posto, ti viene un verso, una parola, qualcosa insomma e lo vai a riprendere, togli la polvere e ti si riapre un mondo. Il mondo di Paladino e del suo Breviario che una volta scritto non è più suo. O comunque non è più solo suo.
Alla Casa editrice Fallone Editore (Puglia), un apprezzamento oggettivo per la veste tipografica e l’edizione bellissima e anche (o forse soprattutto) per il coraggio.
La lettura non è certo facile. Come d’altronde non è facile vivere. E ci sono passaggi che mi hanno aperto il cuore: “Il deserto è vicino, l’esilio è una visione di città dilatate, dalle valli sventrate, la luce moresca, senza cura, senza appello, vive la mia terra arata di scialli neri”.
Con questo suo primo libro Michele Paladino entra di diritto nella città eterna dei poeti e delle solitudini infinite.
Un libro bellissimo, davvero.
IL VIAGGIO EPICO DI MICHELE PALADINO
In tanti, probabilmente, si cimentano con l’arte della scrittura. In pochi hanno il coraggio di mettersi a nudo ed intraprendere un percorso pubblico. Sicuramente pochi privilegiati hanno la prerogativa lirica di muoversi con destrezza tra parole ed illusioni. Si potrebbe pensare che chi scelga il linguaggio aulico della poesia, lo faccia non solo per sé ma soprattutto per gli altri, celando reconditi messaggi o con potenziale slancio voglia riflettere la propria idea di realtà. Credo di no. O meglio, ciò vorrebbe dire avere un linguaggio codificato, impersonale ed estraneo: non è il caso di Michele. Infatti nel suo Breviario, Michele tende ad esporre un suo patrimonio esclusivo e distintivo, non sempre facilmente riscontrabile e fruibile. È un percorso, che sicuramente ha toccato il primo approdo ma già anela altre tappe, iniziato sovente con un linguaggio sovra determinato per inflazione, come spesso palesato dall’accoppiamento aggettivale. Ma mentre questa aggressività e incandescenza stilistica potrebbe portare al barocco lessicale fine a se stesso, Michele riesce, nel suo ritmo non uniforme ma coerente al percorso, in cui l’io è sempre presente, seppur isolato in una specola privilegiata in cui l’autore offre piccoli squarci di vita e di non vita, ad accompagnare l’ignaro lettore verso un mondo onirico scandito con accenti di intensa eloquenza e generosa approfondita coscienza. E se si pensa coscientemente dove il viaggio è stato ideato, per certi versi, questo Breviario, diventa un racconto epico, laddove Michele è l’assoluto protagonista e si muove con smisurata disinvoltura.