Ottobre 2017 – La dimora del tempo sospeso – Nota critica a Luogo del sigillo di Alfonso Guida a cura di Marco Ercolani
«Maelström, diceva quando gli veniva
mal di testa. Se ne andava in giardino.
Passeggiava. Poi gli bastava scorgere i
colori abbrunati del selciato e tra
sé diceva: è tutto finito, quando
me ne andrò? Parlava a voce alta. La nausea
gli aveva impregnato la maglietta intima.
Si nutriva in modo irrazionale. Ora
la luce scolpiva il vialetto curvo,
bronzeo, gli piaceva vedere quella
trasformazione cromatica, anche qui
c’è Costantinopoli, e si metteva in
circolo a guardare le venature
del tramonto. Poi piano prendeva le
scale. Tornava in camera. Era l’ombra
di una catastrofe imminente, l’uomo
delle sagome nere e più oltre il mare».
Inizio la mia nota di lettura con questo “ritratto psichico” che Alfonso Guida dedica a uno dei “matti” di Torremozza (Torremozza è l’ospedale psichiatrico di Policoro, così ribattezzato dal poeta, che lì visse otto anni) e subito devo sottolineare il passo incalzante, misurato, ipnotico, di questo “dettato” poetico. Guida impone al mondo la sua voce, epica e barbara; è un guerriero che scava storie e apre varchi. Il suo “luogo del sigillo”, è anche il luogo dell’infrazione del sigillo. Il poeta tiene una voce uniforme e salmodiante, come una profezia, ma è sempre invaso dalle immagini. Incide sul foglio ritratti dolenti e assoluti di una conditio animae. Poeta complesso e multiplo, pervaso dal dolore psichico, Guida vive il dolore della mente come lesione del pensiero comune, come disponibilità a essere ustionato e scorticato di fronte alla verità, “sbrindellato a ferocia”. Come la “piccola Laida” di uno dei suoi “ritratti”, che tanto ricordano Géricault, da lui stesso citato, “temeva che gli strati / di epidermide scoprissero i nervi, / le ossa, la sua impaurita trasparenza”.
La poesia di Guida, imprudente, eretica, interminabile, non accetta né classifiche né classificazioni. È fluire leggero e greve che ruota in un gorgo senza fine né inizio, dentro un maelström personale che non rinuncia a esprimersi in tutta la sua perturbata potenza. Nessun lettore può dominare o spiegare i suoi libri-poemi: deve farsi catturare dai ritmi lenti o incalzanti, dal tempo del suo snodarsi, dove alla bellezza barocca delle immagini si affiancano riflessioni sonnamboliche sull’oltranza della poesia. Lo scrittore, in ascolto del suo mondo inconciliato e tumultuoso, è anche osservatore poetico dell’umanità desolata e sofferente che lo circonda.
Di Alfonso Guida Marco Munaro scrive che “è più simile a poeti immaginari che a qualunque poeta italiano”. Il suo mondo interiore è esposto con visionaria e sconcertante nudità in Poesie per Tiziana (Il ponte del sale, 2015), un poema di oltre ottomila versi, un romanzo in endecasillabi indirizzato a Tiziana, la sua psichiatra, diario-confessione del periodo di Torremozza. Scrive Alfonso: «Ora è tutto buio e dentro mi ossessiona la mancanza di silenzio. Per me tutto deve passare attraverso la parola, come fosse l’estremo tentativo di aggrapparmi a una realtà di tutti, necessario è farlo ma non porta entusiasmo. Ho i morti addosso ed è come avere i compagni di un tempo più lungo».
Inutile trovare poeti simili ad Alfonso. Vengono in mente alcuni nomi, Lorenzo Calogero e Edoardo Cacciatore fra gli altri, per la infinità della loro poetica, o i poeti da lui venerati, Celan, Mandel’stam, Rosselli, ma l’analogia finisce qui o si rischiano accostamenti banali. Guida non si sottomette a niente e non è figlio di nessuno. La sua voce, eccessiva nell’iperbole delle immagini, descrive con limpida solennità le ferite della sua mente. Il poeta usa la lingua italiana per cesellare personali polifonie dove sapienza, dannazione, santità, follia, innescano una poesia alchemica e totale che, come osserva ancora Munaro, “sembra abbracciare nel suo lampo tutto e tutti, persino se stessa, nel rovescio di se stessa”. Scrive Guida: «La smania di condivisione emotiva in me è stata sempre altissima, incontenibile. Salta in mente Mandel’stam che, prigioniero, in preda a una disperazione e una solitudine non più umane, disse a memoria i versi di Petrarca ai suoi compagni che di italiano non capivano niente. La disperata solitudine rende sciocchi. Aveva ragione Leopardi. Bisogna leggere poesie a chi lo chiede, a chi se ne sente coinvolto». Il lettore, per essere travolto nel modo giusto dalla dissennatezza organizzata del suo dire poetico, deve farsi complice dello scrittore – scrivere con lui mentre sta leggendo. Nel disagio della psiche c’è un potente, impellente, traboccante desiderio di amore, che è vortice estatico. «È pazza la ninfa che ci possiede». Guida scrive sempre un poema apocalittico, una infinita invettiva contro il male, una preghiera senza dèi che ricapitola le miserie del mondo. La violenza forte e chiara dei suoi libri non ermetici ma avvolgenti è restituita da una lingua mai sperimentale, ricchissima lessicalmente, abbagliata dalle sue stesse immagini, sempre in subbuglio nel continuo, tortuoso, allucinato monologare di un io nomade. Guida è poeta appartato e misterioso ma potente: nella sua lingua affabulante cela il mistero di una scrittura fragile nel suo essere traversata dai fantasmi e barbara nel suo cercare una narrazione pervasiva, ininterrotta, urticante, inflessibile a ogni compromesso, viva oltre i confini della vita e della morte. In questo senso si può dire che la sua parola è “folle”, perché la traversano le voci e i demoni di quanto è inudibile e invisibile, ma nello stesso tempo è “sana”, perché sa organizzare questo dolore in forme, orchestrare il sommerso in isole ferdinandee, isole emerse, prossime a sparire.
Scrive Guida: «Le persone e i poeti si ammazzano perché l’ossessione è potente e il bisogno di donare è continuo e nessuno può giustamente sopportarlo. Non è nell’umano». Legittimo, potente, vorace bisogno di essere udito e amato. La “Commedia” di Guida, grande visionario perché grande realista del suo percepire, è evidente nei suoi ritratti psichici:
«Non c’è segno di lotta nell’atrio. Una
pulizia bianca, inumana, sussulta
tra le genzianelle defunte e gli astri
rassegnati a perdere colore. Una
forte luce mi sconquassa le orecchie,
la bocca, ed è sotto il grigio ponticello
di corda che avviene la tauromachia.
Cavalli, tori, gli uomini dipinti
con la polvere gettano i sassi, urtano
la carne, il sangue, il ceneraccio duro
del movimento. Eppure non è questa
la grotta di Lascaux, ma un ospedale
dove i capelli spettinati e grassi
temono la mano del vento e il cieco
gracidio dell’uccello-lira schianta
la sua voce contro le tenebre arse
dell’aurora. Un male così alto giunge in
punta di penna, mi separa dalla
distanza carceriera. Si affaccia tra
le vene una carnagione brunastra
nel cui manto non c’è niente. È la truce
pienezza delle foglie a sogguardare
gli oggetti astratti e inconcludenti delle
nostre citazioni. Una tazza appena
sbreccata, ocra, tigliosa, si addormenta
sul lavabo in cucina.- Cosa brucia
l’assetata fame delle cose? Una
lingua muta, un sogno, una morte in più?».
L’ospedale non è la grotta di Lascaux. La scena squassante è quella di oggi e di ieri. La parola poetica è sempre inattuale, è eterno presente. Guida se ne fa interprete, con potenza vangoghiana. Scrisse Celan: «Voci all’interno dell’arca: Sono/ nascoste solo le bocche. Voi/ che sprofondate, ascoltate/ anche me» (Celan). Ed è quello che ci accade, con la poesia di Guida: ascoltare, nel dormiveglia, la sua non terminabile litania, modellata, plasmata nell’eco della sua lingua sonnambula ed esatta.