7 Aprile 2021 – Su CasaMatta Fabrizio Bregoli recensisce Quaderno croato di Vanni Schiavoni

Colpisce fin dalla sua prima lettura questa silloge, così compatta e ben costruita, pubblicata dall’Editore Fallone, da sempre orientato a scelte di qualità e coraggioso nelle sue proposte. La silloge si inserisce nel genere della letteratura di viaggio in versi, del baedeker in versi, se preferite, riuscendo però a sovvertire rigidità e schematismi che il genere comporterebbe. Si tratta di una breve silloge di dodici poesie, strutturate in realtà in sei coppie, corrispondenti a sei località per ciascuna delle quali compare prima una poesia con il nome in italiano del luogo e poi una seconda con il nome in croato; si origina così un rapporto di canto e di controcanto, capace di rappresentare la realtà del luogo da una duplice prospettiva: prima quella del turista incuriosito dal fascino e dalla bellezza, se non dalla singolarità, del luogo (“più gli aggettivi non bastano allo stupore”); poi quella più nascosta e tragica del luogo in cui ancora restano le tracce della guerra che ha attraversato il Paese, devastandolo con morti e distruzioni, segni o lacerti di un passato che condensa “in strappi la memoria”.

La parola poetica di Schiavoni, che dedica la raccolta “al mio cognome” proprio a sottolineare come in noi si deposita e si rivitalizza la radice a cui apparteniamo, genera quindi un processo interessante di intersezioni, di letture sovrapposte in un quaderno che nasce certamente da un viaggio, ma è soprattutto un percorso interiore attraverso la storia dei luoghi, quella che non si dimentica, che lascia cicatrici indelebili, comprensibili pienamente solo da chi le ha vissute sulla sua carne: “perché per sempre saremo bambini / sotto i bombardamenti di Baghdad / siamo ancora ragazzini tra le granate di Mostar”, versi questi in cui si superano le distanze geografiche dei luoghi, perché la guerra è un male identico ovunque, semina solo odio e dolore, anche quando la si maschera come “guerra patriottica”. Ecco allora che anche la mitezza, l’imperturbabilità del paesaggio, fossero anche gli splendidi laghi di Plitvice, che “piovono così / eterni / perfettamente indenni”, non possono rimuovere la consapevolezza de “la notte che arriva puntuale”, il “presagio necessario nella retina segnata / dalle schegge dell’ultima scossa”; anche fra le bellezze architettoniche delle città si insinuano dettagli inquietanti come “i campanili conficcati come picche in attesa di teste”, “gli angeli ammazzadraghi” che sorvegliano gli uomini “sempre predatori, costantemente prede”. Paesaggio e interiorità si combinano e si contaminano, creando una poesia plasticamente intensa, ricca di implicazioni, mai scontata, capace di fondere dettaglio visivo e riflessione esistenziale, come in questo distico così efficace: “L’aria sul muro di cinta rifrange / i flutti di vita sul lato dei pianti”.

La lingua di Schiavoni è articolata e densa, impiega anche alcuni preziosismi (come “liliale”, “acheropita”), con costruzioni ampie e spesso ipotattiche: l’esatto contrario del minimalismo e dell’ellissi; ne nasce quindi una narrazione in versi, però mai cronachistica, innervata come sa essere di spinte improvvise, scorci inattesi, balzi semantici. Il senso è quello di un mondo che ci attraversa, entra “nelle ossa come fossero tasche” e a chi viene visitato dalla poesia non resta se non trascrivere ciò che “la memoria della specie conferma”, esserne “punto focale”, “raccogliere tutto”.

 

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