Su l’Estroverso di Grazia Calanna, per la rubrica 1 Libro in 5 w, un’intervista a Carla Saracino sul volume Dal tempo qui raccolto, scritto con Antonio Prete.
1Libroin5W.: Antonio Prete e Carla Saracino, “Dal tempo qui raccolto”, Fallone Editore.
1Libroin5W
Chi? Cosa?
Il libro è stato scritto da me e da Antonio Prete, docente e scrittore di grande rilievo. “Dal tempo qui raccolto” apre a una conversazione che abbiamo intrattenuto in due momenti diversi della vita: la prima parte del testo è caratterizzata da una intervista che rivolsi al professore nel 2006, quando scrissi la mia tesi di laurea intorno alla sua opera critica; la seconda è rappresentata da un dialogo recente, avvenuto in questi due ultimi anni alla luce di un ritrovato incontro. Se nel primo tempo i temi toccati approfondiscono più specificatamente la genesi e l’evoluzione dell’attività di Prete quale esegeta dell’opera di Leopardi e traduttore di Baudelaire, nella seconda gli argomenti spaziano: dalla sua esperienza di narratore e poeta alle riflessioni condivise sulla vita, sull’attualità e i suoi complessi linguaggi.
Dove?
Le conversazioni sono avvenute tra Siena e Copertino, nel Salento, luoghi che appartengono alla biografia familiare e professionale di Prete. Ma le parole sono nate e cresciute anche dal contatto ideale, esteso e immaginario che spesso unisce le persone nella distanza fisica e negli intervalli di tempo. Anzi, proprio le pause e i mutamenti del quotidiano hanno formato l’orizzonte di ispirazione che ha poi suggestionato e concretizzato il desiderio di reincontro, il quale si è nutrito pure degli strumenti con cui si comunica perlopiù oggi, ovvero mail e telefonate.
Perché?
Il libro è un omaggio al voluminoso lavoro bibliografico di Antonio Prete, ma risponde anche all’intima necessità di instaurare un dialogo di senso e di significato rispetto al tempo che ci pertiene, che ci investe e che talvolta si fa fatica a decifrare, tante sono le sue prismatiche e mutevoli apparenze di direzione. La conversazione, intesa nel cuore del suo vissuto, ovvero come arte di uno scambio e di un antico bisogno di misurarsi nello spazio dell’umanità, scorre attraverso lo studio dei sentimenti che la storia della letteratura dispiega; la lente di indagine critica e le invenzioni letterarie di Antonio Prete diventano poi la soglia oltre la quale incedono argomenti di grande complessità: dal tema della memoria a quello, più sfuggente e irrequieto, della dimenticanza; dai nuovi linguaggi alle possibili corrispondenze tra le arti; dal lavoro pedagogico ai nuovi stili della comunicazione; dal tema della guerra a quello della fuga, dell’esilio e dei grandi sommovimenti umani.
Scelti per voi
Saracino: E del resto, tutto il suo lavoro poetico mi pare liminare, in accordo a un doppio passo, dalla vocazione interrogante alla posa di un velo la cui intenzione è un fine massimamente amoroso: non tradire né scoprire; come se i suoi versi abitassero una via del mezzo traversata da immagini esondanti che, per inclinazione naturale, si destinano ad entrare nella vita segreta delle parole. Tutto questo mi sembra pervada soprattutto la raccolta Se la pietra fiorisce, successiva a Menhir, dove la navigazione del testo peregrina tra un sensuale panismo mediterraneo e le voci degli assenti, sponde di una percezione familiare che assume anche i riferimenti e i ritmi di una fusione, a tratti epifanica, tra mondo animale, vegetale e umano.
Allora mi chiedo cosa si nasconda in quell’evento o eventualità del “Se” del titolo, condizione promettente, ma che pure arriva ad insinuare sospetti di irreversibilità…
Prete: Provo a rispondere intanto all’ultima parte della domanda, quella sul Se che apre il titolo del libro di versi in questione, Se la pietra fiorisce. In effetti quella sospensione, o attesa, o dubbio, o forse speranza, o comunque rinvio a un tempo altro presenti in quel se del titolo, intendevano accogliere un verso di Paul Celan dislocandolo su una dimensione temporale diversa da quella in cui il poeta lo colloca. Ho riportato il verso di Celan, nella sua interezza e in tedesco, come esergo della poesia intitolata Che la pietra fiorisca, la penultima del libro (di fatto l’ultima in lingua italiana; quella che segue, Matrima, lu ientu, è in dialetto, ed è quasi un fuori-testo). Il verso di Celan, che è nella poesia Corona, dice: “Es ist Zeit, dass der Stein sich zu blühen bequemt” (“È tempo che la pietra accetti di fiorire”: nella traduzione di Giuseppe Bevilacqua). In quella poesia c’è anche il verso che dà il titolo alla raccolta di Celan, Monh und Gedächtnis (Papavero e memoria). Insomma il titolo del mio piccolo libro poetico viene da una poesia che a sua volta contiene il titolo di un libro dello stesso Celan: se vogliamo, un gioco di riflessi. Che forse può testimoniare del mio particolare rapporto con la poesia di un poeta che è stato per anni, insieme ai classici come Leopardi e Baudelaire e ai contemporanei come Luzi, Caproni, Zanzotto, presenza assidua e fortificante nel mio cammino e nelle mie interrogazioni. Una mediazione per dir così prossima con Celan è passata attraverso Edmond Jabès, che Celan ha conosciuto e frequentato da amico (ricordo le belle pagine commemorative che Jabès ha scritto su Celan e il racconto che egli mi faceva dell’ultimo loro incontro nella sua casa parigina di rue l’Epée de bois, nella stanza dove anch’io sono stato molte volte). La pietra che fiorisce è l’ostinazione della vita, che rompe l’aridità, sfiora l’impossibile, si afferma là dove è negata: fiore che sorge dal cuore della sua stessa negazione, “fiore del deserto”. Da qui il mio ritornare più volte sulla relazione tra la leopardiana ginestra (il “fiore del deserto”) e la Niemandsrose di Celan, la rosadinulla, la rosadinessuno. La pietra che fiorisce non è solo una figura ossimorica: è possibile rintracciarne qualcuna in natura. Nel maggio scorso – ero a Sion, nel cantone svizzero Vallese, per una lettura poetica e un dialogo sulla traduzione poetica con Danièle Robert – in un gruppo di amici visitammo la tomba di Rilke a ridosso della chiesetta di un villaggio, Raron: sulla pietra-recinto che circondava la stele si potevano scorgere erbe e fiorellini che ostinatamente erano sorti dal nulla. Sulla stele tombale Rilke aveva voluto incisi alcuni suoi versi testamentari (tra l’altro questi versi cominciano con Rose: singolari corrispondenze, dunque, tra Leopardi, Rilke, Celan, proprio sul nesso fiore e deserto).
Riprendo la sua domanda-considerazione dall’inizio, dove si richiamano alcuni nessi che in effetti mi sembrano essere tessitura di pensiero e di presenze nel libro. Mi piace l’idea di una “navigazione” che “peregrina tra…”: è proprio questo movimento che porta la ricerca poetica sulla soglia di un interrogare assiduo e irrisolto, e nel frattempo però quella ricerca dà testimonianza di alcune percezioni, o esplorazioni immaginative, di un dialogo con delle apparizioni, con delle parvenze che sorgono dal fondo oscuro dell’oblio, o chiedono un margine visivo da opporre al fluttuare del ricordo. Quanto al rapporto “tra un sensuale panismo mediterraneo e le voci degli assenti”, certo, quasi sempre l’assente ha sullo sfondo una natura mediterranea percepita, come accade in ogni dire poetico, con una sorta di tensione, tensione d’ascolto e di visione. Anche se proprio questa vigilanza del sentire è segno di una posizione che si spinge soltanto sulla soglia di quella che possiamo chiamare percezione panica, trattenendosi al di qua di mistiche fusioni. Il rapporto con la lingua, con il suo ritmo, il tentativo di una poesia che si disponga a essere suono di un pensiero, movimento musicale dell’immaginare e del ricordare dovrebbe, fin dove è possibile, dare alle presenze animali, vegetali, umane, dei contorni, insomma una figurazione non indistinta. Come queste presenze, spesso affioranti dal passato, o dalla linea nebulosa dell’assenza, possano prendere forma linguistica e disporsi nella luce di un dire che è altro dal comunicare e vorrebbe essere insieme nitido e polisemico, questa è la sfida, difficile, della poesia. Restando alle presenze che si mostrano nei versi di Se la pietra fiorisce, certamente molte di esse si possono inscrivere nel cerchio di un interrogare che cerca di nominare il nesso tra corporeo e celeste, tra fisicità terrestre e fisicità astrale. Insomma nelle diverse sezioni del libro mi sembra di essere rimasto nell’orizzonte di quella “prosodia della natura” o “fisica poetica” che da molti anni appartiene alla ragione del mio ricercare (proprio a proposito di questa “fisica poetica” Zanzotto mi scrisse una lettera dopo l’uscita del libro Prosodia della natura, 1993, che non a caso aveva per sottotitolo, esplicitamente, Frammenti di una fisica poetica).
Le prime due sezioni del libro, Materia d’ombra e Cenere e figura, in qualche modo intendevano dare voce e presenza a quel che sale per dir così dalla sparizione, al tremito di luce che resiste nell’ombra, insomma alle parvenze che persistono nel teatro dell’interiorità, a quella “materia d’ombra con lampi, che è vita”, come dice l’ultimo verso di Privazione, con figura. Ma sono, queste, considerazioni che vengono dopo la scrittura, quando l’autore dei versi si fa lettore di se stesso, e per questo hanno una grande labilità e provvisorietà.
…
Saracino: E ancora, conversando intorno alla medesima opera, nella bellissima prosa lirica Il profumo del possibile, la figura femminile che viene descritta appare come effigie di dono: statuaria per levatura di sogno, matrice e assisa, perché senziente in un giardino danzante di memorie, depositaria di una sapiente conoscenza che incide la sua affidabilità nel regno delle piante e delle acque. È lei un profilo, un confine, la parola che traduce del mondo ogni possibile linguaggio?
Prete: Sì, certamente, come lei dice, quella figura femminile è immagine di un confine, soglia da cui si scorge più che il ventaglio del possibile, il suo profumo. Una sensazione che insieme è incorporea e fisica, invisibile e sensoriale, e ha come nascosta fonte l’orizzonte, e il cielo stesso, dell’alterità. Un caro amico la cui assenza rimpiango molto, finissimo interprete e teorico della letteratura, Stefano Agosti, in una lunga lettera sul libro s’era soffermato proprio su questa prosa. Come accade che alcune immagini prendano su di sé, senza che ce ne accorgiamo, una certa densità espressiva è un fatto che appartiene a quella parte ignota del movimento interiore, immaginativo, verso il dire poetico. Dopo, in un altro tempo, possiamo anche accostarci a tali immagini con quella che un tempo, in occitano, si diceva razó, insomma esplicazione poetica. Qui, a proposito di questa prosa, quel che posso dire è che il primo movimento aveva a che fare con una sorta di affezione, di legame, di evocazione di una presenza che saliva dalla sua lontananza, da un suo tempo perduto. Mentre si delineava nel suo sentire, nel suo fisico disporsi dinanzi all’albero, nella sua relazione intima, percettiva, con il sapere e con il sentire che trascorre nel pulsare della natura, ne coglievo il profilo, ma come velato da una sua indeterminazione. Un amore? Un’apparizione che congiungeva nel femminile il materno e il desiderio, la madre e la compagna? Un po’ come accade ne Le balcon di Baudelaire? Ma, ripeto, sono domande postume. Certo, rileggendo, in quel profilo e in quel modo di sentire in intimità con il respiro della natura, si può scorgere una sorta di figurazione della poesia, del suo linguaggio, del suo fondamento insieme corporeo e immaginativo, sensuale e metafisico. Ma anche questo è come un passaggio che prende forma ora, proprio nel nostro dialogare, e a partire dalla domanda che mi ha fatto.
Saracino: Ritornando al tema delle peregrinazioni, cosa c’è dietro ai suoi suggestivi cambi (o scambi) di passo tra i generi e gli stili letterari? Sperimentando la forma del racconto breve, della prosa lirica e del saggio critico, è come se volesse consegnare sé stesso alla sua opera, allo stesso tempo farne un unico corpo trasparente e rifrangente di echi duraturi. Condivide questa impressione?
Prete: Certo, peregrinare per generi e per forme espressive mi è sempre sembrato naturale e anche necessario, se consideriamo l’atto dello scrivere un esercizio di conoscenza di sé e allo stesso tempo un’attività esplorativa, e di conseguenza sperimentale. Dico sperimentale nel senso primo, cioè come ricerca, esercizio, prova. Quanto allo sperimentalismo vero e proprio, penso che anch’esso è implicito in ogni invenzione che diciamo letteraria. Ci sarebbe molto da dire sulla provvisorietà dell’opposizione tra tradizione e sperimentalismo, Del resto abbiamo i grandi esempi, su questo piano: la poesia dei classici è sperimentale. Pensiamo alla Commedia dantesca, ma anche alle forme variabili, mosse, di grande annessione linguistica di un poeta come Pascoli, dal quale le avanguardie storiche e in parte le neoavanguardie si sono sentite lontane. C’è poi da dire che la scrittura, in quanto tale, tende all’esplorazione di forme, all’invenzione di modi espressivi: è, insomma, un costante affrontamento della lingua. Baudelaire nel poème Le Soleil, il secondo della sezione Tableaux parisiens, mette in scena il lavoro del poeta come una “fantasque escrime”, una scherma fantastica con la lingua, con i suoi azzardi, con i suoi suoni, con le sue parole. L’esercizio della scrittura, e contemporaneamente la lettura e la conoscenza dei classici, portano a riconoscere il genere e anche la forma espressiva come dei fatti non statici, non predefiniti, ma mobili, contaminabili, soggetti a costante variazione e reinvenzione. Certo, via via ciascuno trova le modulazioni che sente più proprie, ma di per sé la scrittura è mobile, trascorre tra forme, e riflette, nel definirsi dei modi e degli stessi stili, il costume e il gusto di un’epoca. La stessa distinzione tra poesia e prosa è sopravvenuta storicamente, ha una sua mobilità e provvisorietà. Ecco un passaggio dello Zibaldone leopardiano che mi accade di citare spesso a questo proposito: “L’uso ha introdotto che il poeta scriva in verso. Ciò non è della sostanza né della poesia, né del suo linguaggio, e modo di esprimer le cose… L’uomo potrebb’esser poeta caldissimo in prosa” (Zib., 1695-96, 14 settembre 1821).
Dopo questa premessa, provo a dire qualcosa sul mio orientamento intorno ai temi proposti dalla domanda. Tornando alla parola peregrinazione, tenere aperti questi passaggi tra modulazioni espressive diverse – tra verso e prosa, tra narrazione e scrittura critica, e aggiungerei tra esegesi di un testo e traduzione – ha significato per me semplicemente stare sulla soglia di un esercizio e di una ricerca. Nel costume letterario italiano c’è una tendenza a dare esclusivo rilievo alle forme prevalenti in uno scrittore: si trascura, ad esempio la poesia dei narratori e la narrazione dei poeti (pochi leggono la poesia di Landolfi, di Bassani, di Bufalino, per fare dei nomi, come poco conosciute sono le prose di un Luzi, di un Montale, di un Caproni). C’è insomma una frettolosa inclinazione verso la pulsione classificatoria, verso il definito ruolo pubblico. Questo non accade in altre culture letterarie, come quelle latino-americane: pensiamo a Borges, a Octavio Paz, a Alvaro Mutis.
—
Antonio Prete, docente universitario, critico, narratore, poeta, traduttore. Ha tenuto corsi, seminari, conferenze in molte Università e Istituzioni culturali di altri Paesi, tra cui il Collège de France, Yale, Harvard University, Salamanca. Ha partecipato attivamente a molte riviste, tra le quali «aut aut» e «Il piccolo Hans». Ha fondato e diretto la rivista «il gallo silvestre» (1989-2004). Tra i suoi libri più recenti il saggio Carte d’amore (Bollati, 2022), la raccolta di poesie Tutto è sempre ora (Einaudi, 2019), l’opera narrativa Album di un’infanzia nel Salento (Bollati, 2023). Molti suoi scritti sono tradotti in altre lingue.
Carla Saracino, docente, poetessa, critica, scrittrice per l’infanzia. Insegna Lettere nelle scuole secondarie. Ha pubblicato diversi libri di poesia, tra cui I milioni di luoghi (LietoColle, 2007 – Premio Saba Opera Prima) e il più recente Quest’ora dell’estate (L’arcolaio, 2022). È cofondatrice della rivista digitale «Monolith», a cui collabora nella sezione della saggistica letteraria (www.monolithvolume.com). Per l’infanzia pubblica raccolte di fiabe e albi illustrati.