Su Via Lepsius Antonio Devicienti recensisce splendidamente I vivi. Un tremore di Andrea Donaera.
ttocca se ‘nnichene, moi, ‘e ‘ntrame: su “I vivi. Un tremore” di Andrea Donaera
di Antonio Devicienti
Devo subito premettere che nei confronti delle 12 poesie di Andrea Donaera contenute nel libro I vivi. Un tremore (Fallone Editore, Collana Il Leone Alato, Taranto 2022) non riesco ad avere un atteggiamento del tutto imparziale: sono scritte in dialetto salentino che è anche il mio dialetto, quello che risuona nel più profondo della mia mente, quello che è i suoni della mia più remota infanzia; sono scritte da un autore che stimo in maniera particolare per la sua capacità di rappresentare una salentinità non banale e non omologata, bensì ancora legata alle proprie radici (senza essere, sia chiaro, né escludente né reazionaria né provinciale) e profondamente innestata in questo presente e perché Donaera è stato capace di concepire un libro raro di rara forza espressiva e concettuale come Io sono la bestia (sul quale ho provato a riflettere qui).
Ebbene, I vivi. Un tremore è una sequenza di 12 testi brevi e brevissimi non del tutto estranei alla plurimillenaria tradizione del canto funebre salentino, capace di assumere, sulla soglia del secondo decennio del XXI Secolo, il dialetto come lingua e codice privilegiati per dire, senza sbavature né derive sentimentalistiche, il proprio rapporto con la morte. La morte, il legame tra morti e vivi, la concomitanza tra vita e morte appartengono direi naturalmente alla cultura salentina (così come a ogni cultura e tradizione mediterranea di matrice rurale) e Andrea Donaera ne raccoglie l’eredità sviluppandola entro una scrittura controllatissima eppure emozionante, coinvolgente che, come ogni scrittura matura e consapevole, non consola il lettore, non lo culla tra i rassicuranti stereotipi del poetichese e, trattandosi di poesia in dialetto, del più stereotipato folklorismo, ma pone quello stesso lettore innanzi a un abisso, ne sollecita la partecipazione attiva, lo interroga proprio nel momento in cui autore e lettore assieme attraversano i territori dei vivi e dei morti, quando il tremore della paura e, contemporaneamente, dell’essere in vita, del ricordo e dell’assenza (la quale è tuttavia presenza fisica concretissima del corpo del defunto), il tremore della voce che dice i versi e del silenzio che li inframmezza e li accoglie, quando quel tremore sorge dalle fibre più intime della mente, sua condanna e sua benedizione.
Il “pianto rituale nel mondo antico” (per dirla con le parole di Ernesto De Martino) si ripropone e si continua, in questi componimenti di Donaera, con convincente forza stilistica e concettuale, confermando il grande valore della scrittura di Andrea – e si legga già il primo testo:
Aggiu baràtu, stanotte, «Sine, su’ trasutu», aggiu tittu, ma none, intra ‘lla càmbara cu’ llu chiaùtu, nu’ mme fitu, timu: pe’ ‘stu piettu, pe’ quiddu troppu fermu te ddhu vecchiu, face paura ‘sta notte, me face paura ‘a morte. Ho barato, stanotte, «Sì, sono entrato», ho detto, ma no, nella camera con la bara, non posso, ho timore: per questo petto, per quello troppo fermo di quel vecchio, fa paura questa notte, ho paura della morte. (p. 15)
Ecco che l’omoteleuto tipico delle forme enclitiche salentine per “sì” e “no” (sine / none), la dentale iniziale sorda rispetto alla sonora dell’italiano e la chiusura di “e” in “i” in detto → tittu (ma anche in temo → timu), le tipiche cacuminali salentine nei suoni trascritti “tr”, “ddh”, le rime quasi perfette tittu / piettu, notte / morte, senza trascurare lo spostamento sillabico tra chiaùtu e vecchiu animano uno spazio sonoro nel quale la notte si fa immediatamente tempo e luogo della presenza della morte, dell’agone che l’io lirico ingaggia con i segni di quest’ultima – è tradizione, in Terra d’Otranto, vegliare il defunto, ma anche lasciarlo “solo” in alcune ore notturne affinché possa “ricevere la visita” di altri defunti (in tal senso le credenze popolari continuano l’antica tradizione greca che non scioglie del tutto i morti dai loro perduranti tenaci legami con la terra); mentire, allora, non avere il coraggio di entrare nella stanza dov’è la bara e dire di averlo fatto è atto tragico perché fallito e perché dichiara senza mezzi terminila paura della morte e innanzi a essa. La presenza dei morti è pervasiva, capace di scardinare l’abituale percezione spazio-temporale:
Addu stane moi li morti ci stane cquai a tutte ‘e vande? Dove sono ora i morti se sono qui in ogni dove? (p. 16)
Ma la contiguità coi defunti non è, si faccia attenzione, insistenza su di una visione cupa e triste del mondo, sì invece il portato di un universo sociale, culturale e storico che del tutto naturalmente accoglieva nella sfera della quotidianità la presenza memoriale del defunto, intanto che Andrea Donaera va oltre e perlustra (quarda, scrive in dialetto), coi modi ritmati e peculiari della scrittura in versi, «quiddu ca stae fore» (quanto è fuori) «‘dda cosa / ‘nu picca malemanàta ca forse sinti / teve» (quella cosa / un po’ maltrattata che forse sei / tu – p. 17) – il vivo cerca la propria identità in ragione di un confronto dialettico col defunto (ed è spesso una dilaettica tutta istintiva e viscerale), comprende la propria postura nel mondo in relazione all’alterità totale della morte e proprio quest’alterità apre l’abisso profondo dentro cui è costretto a guardare:
Li morti nu’ lli timìre ma li cristiani, li fatti, l’esseri, li strumienti, quiddhi sì, cusì cuntàva lu mortu meu cchiù beddhu ca cchiù te tutti mò timu. I morti non li temere ma gli umani, i casi, gli esseri, gli strumenti, quelli sì, questo diceva il morto mio preferito che più d’ogni altro ora temo. (p. 18)
Nel terzo verso compare un bellissimo verbo tipicamente salentino, cuntava che è imperfetto di cuntare e che viene tradotto correttamente con “diceva”, ma che vale anche “raccontare” – ebbene, dire e raccontare tendono spesso a coincidere nelle parlate salentine, esprimendo sia il gusto per la narrazione che per l’apologo, sia la sentenziosità di un’affermazione che il semplice atto del parlare; e probabilmente il morto del testo di pagina 18 reca con sé un’esperienza di vita lunga e un legame affettivo profondo con l’io lirico (“lu mortu / meu cchiù beddhu” – si noti il forte significativo enjambement) per cui le sue parole sono venerabili e memorabili, ma è probabilmente questa saggezza ad aprire, insieme con la morte, un temutissimo confronto tra il proprio sé e il defunto. Il tremore dei vivi consiste anche in questo scorgere la propria pochezza e in questo cercare un sé che si costruisce a fatica, tremolante appunto; e se le parole del defunto ribadiscono un adagio salentino che invita a non temere i morti, ma i vivi, è la morte a riproporsi come antagonista senz’altro vincente, presto o tardi, ma per rafforzare l’attaccamento dei vivi alla vita, tremito (non solo di paura, ma anche talvolta di piacere) tenace, per quanto fragile.
[…] Nu iou more e ‘n’ addhu nasce, pare, nu iou, quiddhu mortu a te te serve, te serve ccu llu leggi, comu libri, comu ddhi libri ca laggìene te le ‘ntrame, ttocca se ‘nnichene, moi, ‘e ‘ntrame. […] Un io muore e un altro nasce, pare, un io, quello morto a te serve, ti serve leggerlo, come libri, come quei libri che leggevamo di pancia, bisogna straziarla, adesso, la pancia. (p. 19)
Anche in questo caso si può riconoscere una credenza salentina secondo la quale a ogni morte corrisponderebbe una nascita, ma Andrea Donaera scorge proprio nel morto l’interlocutore capace di renderlo edotto alla vita, ché I vivi. Un tremore è, anche, il resoconto del faticoso apprendistato esistenziale; splendido sia dal punto di vista sonoro sia da quello concettuale il sintagma “te le ‘ntrame”, alla lettera, “dalle viscere, dal loro profondo” perché aggiunge concretezza corporea all’atto di “leggere” la vita-e-la-morte, unisce il leggere al mangiare e al digerire e al defecare, il leggere al sentire con la parte più profonda e istintiva e irrazionale del corpo, quella che, se ferita, accusa dosi di dolore intollerabili (in salentino “le ‘ntrame” indicano la parte più profonda del corpo e della persona, forse, per un’ispirazione vagamente platonica, esse sono ancora sede dell’anima concupiscibile, quella del desiderio, della paura, dell’istintività, dell’energia vitale).
Ecco allora che
[…] lu parcé te tutte le ‘uci te li morti ete ‘a vita, ‘a vita prima t’a morte ca, pare, nu’ gghié mai ci sape cc’ite ‘a vita. […] il perché di tutte le voci dei morti è la vita, la vita prima della morte che, pare, non è mai granché la vita. (p. 20)
Ritorna la forte inarcatura tra i versi (“le ‘uci te li / morti”), una delle cifre stilistiche di Donaera in questo lavoro perché gli consente di portare a espressione quella “virata del respiro” (raccogliendo una suggestione di Celan) che è, spesso, sospensione del respiro (per paura o per emozione), tremore del respiro e della voce, interruzione del respiro, oppure suo precipitare, suo smarrirsi e ritrovarsi – è la natura stessa della poesia che a ogni verso sospende sé stessa, si precipita in giù nel verso successivo, riprende il respiro per interromperlo o inarcarlo a ogni nuova versura; e la poesia, che è dire, non può non porsi in ascolto delle voci dei morti, l’intero spazio sonoro brulica, se lo si sa ascoltare, delle voci dei morti e sono voci che dicono della vita, per quanto essa “possa non essere stata una gran cosa” – sembra talvolta di attraversare di nuovo l’Odissea o l’Eneide leggendo questi versi di Donaera, due poemi così colmi della voce dei morti che non sanno separarsi dal mondo dei vivi, che continuamente li incontrano, parlano loro.
Perché quella di Andrea Donaera è scrittura che ha al centro il corpo nella sua totalità di fisicità e di pensiero (compresi i frangenti di conflittualità e frattura tra i due versanti), sentimento e sensazione; solidissima è la linea di continuità a tal proposito tra opere quali Occhi rossi, Una Madonna che mai appare, Lei che non tocca mai terra, Io sono la bestia: quando a pagina 22 (intendo I vivi. Un tremore) scrive:
E tuttu trèmula prima te turnare, te critìvi allu corpu tou iddhu ‘mbece crite sulamente allu sutore E tutto trema prima di tornare, tu credevi nel tuo corpo lui invece crede solo al sudore
Donaera esprime lo scarto spalancato tra mente e corpo, la scrittura in versi si sviluppa parallela a quella narrativa per dire le vertigini squassanti del vivere, l’imperdonabilità (forte agisce su di me la suggestione del libro di Cristina Campo in questo frangente) di chi vive senza compromessi e senza compromessi piccolo-borghesi; infatti «era sulamente ‘u core / […] / ca te torna ‘rretu a’n canna» (era solo il tuo cuore / […] / che torna alla gola – ibidem) e anche in questo caso tengo a richiamare l’attenzione su un’espressione salentina specifica e cioè “ ‘n canna”, “in gola” che anche sul versante della coloritura fonetica bene rappresenta lo stato di sussulto e di emozione e di (violenta) virata del respiro. E deve venire notte (“scurìsce”: diventa scuro, buio) quando «se / trèmula tantu se trèmula ca l’anni e li / morti se sprìculene e scìndene, a / undàte, te pìjene a’n coddhu» (si / trema tanto si trema che gli anni e i / morti si sgretolano e scendono, a / valanghe, ti prendono alle spalle – p. 26) – il movimento sismico che s’impossessa della mente e del corpo sancisce l’inscindibile legame tra i vivi e i morti.
Te le nonne ricòrdete ‘e mani te farina: l’ùnicu jancu ca forse te tocca, comu ‘na luce ‘nsarràta te le palpebre, quandu crai scaòrti ‘a terra, quandu crai stai intra ‘llu scuru, a’n terra. Delle nonne ricorda le mani di farina: l’unico biancore che forse avrai, come una luce chiusa dalle palpebre, quando scaverai la terra, quando sarai nel buio, nel nero, per terra. (p. 27)
Termina il libro-poema con la parola “terra”, con un’azione di discesa dentro il buio della terra (catabasi e νέκυια come è dell’intiero libro), movimento di escavazione (“scaòrti ‘a terra”), termina ribadendo il legame (vero perché creduto tale) tra terra e stato di dopo la morte e tra le generazioni (le mani di farina delle nonne saranno la luce sotto le palpebre del defunto). È ancora un oltretomba di matrice antico-greca a ritornare (non estranei, forse, neanche i canti funebri in griko della tradizione salentina) – e la congiunzione “quandu” che apre e chiude il penultimo verso è intimamente connessa alla ripetizione dell’avverbio “crai” (derivazione diretta dal latino “cras”, domani) perché I vivi. Un tremore chiude e riapre un cerchio (suggerito anche nell’immagine di copertina rappresentante l’Ouroboros che circonda l’Orsa minore).
Andrea Donaera dedica questa breve, intensissima scrittura in versi a Dante Della Rupe, poeta dialettale gallipolino e pone in esergo i versi conclusivi del testo I Am the Black Wizards del gruppo musicale norvegese black metal Emperor perché vuole esplicitamente saldare la tradizione salentina con una modernità anche provocatoria e inquieta, esattamente come inquieto e sofferto è l’itinerario tracciato in queste “12 poesie” che, coerenti e compatte, formano un poemetto il quale, pensato, sentito e composto in dialetto, saldamente lega una millenaria tradizione linguistica e culturale al presente; non si tratta di un’artificiosa riesumazione, ma (esattamente come accade anche nella narrativa di Donaera) il salentino di Gallipoli è la lingua sorgiva e irrinunciabile, spontanea e complessa dell’esistere e del morire. E della poesia.