Domenica 16 Luglio 2023 – Su Via Lepsius Cartoline degli addii di Alessandro Cartoni

Su Via Lepsius Antonio Devicienti ci regala un’analisi perfetta di Cartoline degli addii di Alessandro Cartoni.

nel piccolo schianto / del tempo: su “Cartoline degli addii” di Alessandro Cartoni

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

Chi fosse in cerca di un libro in poesia dallo stile sobrio ed elegante, dalla dizione impostata con consapevolezza ed estrema attenzione, del tutto privo di sentimentalismi e contorcimenti solipsistici pur affrontando un tema che facilmente potrebbe tradire chi scrive, prenda in mano Cartoline degli addii (Fallone Editore, Taranto 2022) di Alessandro Cartoni.

          I settantasei brevi testi tutti privi di titolo e costituenti un unico corpus poetico hanno come tema portante (e basso continuo) quello della separazione, dell’assenza, del ricordo, del tempo che passa, del disfarsi ineluttabile dei legami. È allora chiaro perché parlavo del rischio di derive sentimentalistiche, piagnucolose e solipsistiche che Cartoni evita in forza di una scrittura evidentemente esercitata con passione e umiltà sugli esempi migliori della poesia italiana e al tempo stesso rivista, limata, sorvegliata con certosina attenzione fino a ottenere testi non lambiccati, ma, al contrario, di luminosa presenza e forza. 

nel bianco orizzonte 
dell'inverno
così ti ho ritrovato
con le braccia nodose
le tue gambe forti
e c'erano anni davanti
mesti e deliranti
ed eravamo noi
senza conforto alcuno,
ti guardo ti scrivo
mi guardo le scarpe
oggi nella ruggine
del binario,
ricordo tutto, anche
gli addii doloranti
le erbe che ingiallirono
nella tua durezza
l'illusione del futuro
il termine corsa
(p. 15)

         Si noti, già nel testo che apre il libro, l’iniziale minuscola, caratteristica di tutte le liriche di Cartoline degli addii, le quali, pur riferendosi a circostanze, a momenti e a persone differenti, sembrano voler costituire un discorso in versi unico, ritmato e intervallato soltanto dagli a capo tra verso e verso e dallo stacco da un testo all’altro (esistono solo due esempi, alle pagine 16 e 59, di suddivisione in strofe); i versi, liberi (pur con rare rime o assonanze, ma caratterizzati spesso dall‘enjambement), sono pressoché sempre brevi, essendo il settenario la misura di riferimento e il lessico è quello del sermo cotidianus senza mai affioramenti dal registro basso o, viceversa, alto; la sintassi è sempre chiara e priva di contorcimenti; non esistono opacità o ermetismi nel libro di Alessandro Cartoni, né giochi di parole, ma una cristallina volontà di dire e di farsi capire senza difficoltà o incertezze.

        Altra caratteristica (fondamentale) di Cartoline degli addii è l’insistita presenza del “tu” che, di volta in volta, sarà la persona cui l’io lirico direttamente si rivolge oppure sé stesso, intessendo, in questo secondo caso, un dialogo interiore che è meditazione e, in entrambi i casi, apertura verso uno spazio e un tempo dai quali si attende risposta – ma è proprio l’assenza di risposta a costituire uno degli argini significanti e commoventi di Cartoline degli addii – ché non c’è dubbio alcuno del fatto che questo libro possa e sappia toccare e muovere anche l’emotività del lettore, essendo l’assenza e il lutto esperienze comuni a tutti gli esseri umani.

        Non appaia allora pignoleria fine a sé stessa il fatto che richiami l’attenzione anche sul genere maschile del participio “ritrovato” del terzo verso: in molti altri testi la persona assente è chiaramente di genere femminile, per cui Cartoline degli addii si configura come un canzoniere (mi sia permesso impiegare quest’antica, desueta, bellissima definizione) della separazione, della perdita, dell’assenza, appunto, talvolta del lutto – ma non c’è alcun bisogno di legare il libro alla biografia dell’autore, di sapere chi siano le persone cui i versi alludono, quali le circostanze esistenziali della morte o dell’abbandono: una delle cause che a mio modo di vedere dà notevole valore al libro è proprio il lavorio sullo stile e sull’espressione, sulle cadenze ritmiche e sul lessico che, affrontando un tema in cui ognuno di noi può riconoscersi, ne varia le argomentazioni e le sprezzature linguistico-concettuali creando un’opera di poesia tout court.

un volo di neri corvi sulle stoppie
lo scricchiolare del tempo 
che schianta nel sole,
una falsa brezza che incombe
sul giardino, così soli 
come siamo stati noi
molto tempo fa,
anche stamane il mio sguardo 
cercava nell'aria immota
qualcosa di perduto
mentre passavo
e non ti voltavi
così muta e silenziosa
sei scomparsa
nell'androne
(p. 21)

         Si osservi la mancanza del punto fermo a conclusione dell’ultimo verso, altra caratteristica di ogni testo del libro e la presenza di figure animali (qui i corvi, ma altrove saranno le lucertole, i gatti, i fagiani, gli istrici, le lepri…), mentre l’aggettivazione fa comprendere che il “tu” è, stavolta, di genere femminile: interessante risulta qui, come altrove nel libro, il discrimine sottilissimo e significativamente incerto tra presente e ricordo, tra percezione e visione, tra concretezza di luoghi e situazioni e loro sfumare o loro manifestarsi quale illusione o nostalgica malinconia. La strutturazione dei testi (precisa e rigorosa), le scelte lessicali e sintattiche (chiare e lineari) sono capaci, grazie alla maestria della scrittura di Alessandro Cartoni, di modulare immagini linguistiche ricche di sfumature e di transizioni (presente-passato, reale-immaginato, percepito-rimemorato, concreto-simbolico, luce-ombra) le quali caratterizzano a loro volta un libro che soltanto una lettura superficiale e frettolosa definirebbe “semplice e chiaro” – invece, come ogni progetto di scrittura consapevole e maturo, non dilettantesco, Cartoline degli addii va scavato e interrogato nelle sue ragioni profonde che riguardano lo stile e la struttura, i concetti e la lingua in quanto generatrice di testi che non si esauriscono affatto nella loro capacità (pur attiva) di commuovere.

         È per questo che la presenza e l’alternarsi delle stagioni dell’anno, il ritornante Leitmotiv della neve, del giardino, del cancello di casa, del letto, delle stanze, della finestra (e via enumerando) intessono una meditazione sul tempo che passa e che, trascorrendo, strappa persone amate alla loro presenza, anzi, nella loro stessa presenza si rende già visibile il momento della separazione e dell’assenza:

mentre dormi sfioro la tua schiena 
ne seguo il profilo fino ai piedi
osservo i tuoi capelli neri
abbandonati sul cuscino
e penso alla tarda estate
e al giallo delle foglie,
e al varco azzurro della finestra
dove le stagioni fuggono
nel piccolo tremore
che scava nello stomaco,
immagino il nostro amore
e il nostro andare
come tutte le cose
verso la bruma d'autunno,
poi sento il tuo respiro
calmo e lento che attraversa 
la stanza,
allora le cose diventano 
più chiare e si riempiono
di senso, così chiudo
gli occhi e penso
che ci sei tu
nel breve tempo 
di questo mondo
(p. 89)

          Sottolineo che leggere Cartoline degli addii pagina dopo pagina significa assistere alla reiterazione di situazioni di assenza, fino a questo testo (il terz’ultimo del libro) nel quale, inaspettatamente, la donna sembra essere, invece, presente, anche se gli ultimi versi esplicitano la consapevolezza della brevitas che caratterizza le esistenze umane; ma non si trascuri il fatto che la donna amata volta la schiena (è già pronta ad andarsene?) e che, in Cartoline degli addii, andrebbe studiato il valore dell’indicativo presente, in teoria tempo e modo della realtà, ma, nel lbro, nient’affatto garante di realtà e di presenza; e nella lirica successiva (penultima di Cartoline degli addii) si legge:

non ti ho mai chiesto
di lasciarmi una ciocca
sarebbe stato un segnale
funerario
oppure sarebbe andata
persa
nei traslochi della vita.
Oggi penso a quei fili
sottili del colore del rame
muti testimoni di quello 
che eravamo, 
ora che il limpido inverno
si appressa
senza ritardi o dilazioni
mi avrebbe scaldato
un portafortuna per l'abisso
per le ore innominabili
per tutto quello
che non c'è
per il nostro domani
inconoscibile e fosco
(p. 90)

          Se si fissa la propria attenzione sui versi «Oggi penso a quei fili / sottili del colore del rame» e li si confronta con «i tuoi capelli neri» del testo precedente, appare chiaro che non un’unica figura di donna è protagonista del libro, ma, appunto, vero protagonista è il congedo, la separazione, l’addio, anche la morte e, quindi, il tempo stesso che ineluttabile conduce alla separazione e all’assenza; se anche ci fossero spunti autobiografici sottesi al libro (e certo ci saranno), essi non sono né determinanti, né essenziali per leggere una scrittura che, invece, sa superare in maniera convincente e in forma d’arte il grezzo dato biografico; è per questo che l’ultima lirica può strutturarsi così:

ti perdo ogni giorno
nel piccolo schianto
del tempo,
nel frantumarsi delle cose 
mortali,
alla finestra aspetto
la tua figura all'orizzonte, 
prego la tempesta 
che ti riporti indietro
che mi riporti indietro,
sul pontile della baia
c'è il nostro amore
che uggiola perduto
nella notte e attende
ancora noi, 
sotto la pioggia
rimane immobile a guardare
il bianco dei marosi
che esplodono laggiù
sulla linea del mondo
(p. 91)  

          – potrebbe trattarsi dell’amore per la compagna (molto probabilmente), ma anche dell’amore per qualunque altra persona determinante nella vita di ognuno di noi (si noti l’assenza di aggettivazione che faccia decidere per uno dei generi grammaticali…) – la linea del mondo è l’esistere che, fin dai primi suoi istanti, esperisce il rapporto amoroso, è la vita stessa amore al mondo ferito, però, da lutti, separazioni, abbandoni.

          Ma non si creda che Cartoline degli addii possa esaurirsi qui; propongo ora la lettura del testo seguente:

la noia s'addipana
nei campi sgualciti
dalla neve,
gli animali al crepuscolo
fiutano l'inverno
che muore, 
la lepre che alza
le orecchie,
il fagiano che becca
al cancello,
l'istrice oscuro
che inarca la schiena.
Ma ancora tutto 
si muove a rilento
nell'aria del nostro
scontento
(p. 31)

          «la noia s’addipana» è chiarissimo richiamo montaliano e l’intero libro di Alessandro Cartoni mi appare ispirato dal magistero montaliano in una doppia forma: da una parte Cartoni continua e sviluppa alcune suggestioni novecentesche (il verso libero ma inserito nella forma del testo in sé conchiuso, il tema dell’assenza e del ricordo, la voce monologante che cerca un dialogo puntualmente eluso), dall’altra mette a frutto le risultanze delle Occasioni (ma non solo) e qui, in particolare, di quel capolavoro assoluto e indiscutibile che è La casa dei doganieri (il raro, bellissimo e indimenticabile “s’addipana”, segno, quindi, lessicale e linguistico di straordinaria pregnanza, ma anche il “tu” e, nel testo che ho riportato in precedenza, l’immagine dei “marosi”, ma non mi sottraggo neanche al pensare a Dora Markus – e lo stesso istrice fa riandare al porcospino di cui Montale scrive in Notizie dall’Amiata e in A pianterreno, per esempio, cioè a testi da due stagioni diverse e distanti della sua vita e poesia – e a pagina 28 il verso «come un talismano» è altra chiara presenza (o senhal?) montaliana, nonché il falco a pagina 45, o anche i versi «e una foglia scorreva / tra le pietre nella gloria / del torrente» a pagina 47, «è rimasta l’ombra tua / in queste stanze / dalla volta che vi entrasti / e vi lasciasti il segno del tuo corpo vero» a pagina 69 – ancora La casa dei doganieri…); ma la presenza in molti testi della neve assieme al tema del gelo e del bianco («l’ombra della quercia / s’allunga nera sulla neve» p. 27, «oggi hanno sparso il sale / le giubbe rosse della municipale, / ma c’erano ancora ragazzi […] / […] / coi capelli macchiati di bianco / fangoso, a tirarsi le palle» p. 30 – e anche le “giubbe rosse” che spalano la neve alludono a Montale? – «striato di bianco / è il campo arato / che dorme sotto / al gelo» p. 59, per esempio) fa pensare (pure nelle sue valenze simboliche) a un poeta conterraneo di Cartoni che è stato Francesco Scarabicchi – proprio il verso di Alessandro Cartoni a pagina 39 «c’è un largo prato bianco» è forse un esplicito omaggio a Scarabicchi? (e forse si potrebbe chiamare in causa, anche, il Cosimo Ortesta di Nel progetto di un freddo perenne), ma il paesaggio affiorante in Cartoline degli addii, pur così discreto e appena accennato, essendo certamente quello (peculiare e singolare) delle Marche e di Recanati (con poche eccezioni: New York a pagina 26, Milano a pagna 56), visto, in sovrappiù, nel ciclo delle stagioni, potrebbe rimandare anche a certi paesaggi di Umberto Piersanti, mentre l’eccelso Recanatese mi sembra nume tutelare ineludibile dati i temi della ricordanza e della lontananza, ma non solo: così come non è affatto necessario sapere, per esempio, chi fosse “davvero” Silvia (stolta curiosità che distrugge a priori la poesia e la sua capacità di suggestione), allo stesso modo, ribadisco, non è necessario, nella trasfigurazione che ne attua Cartoni, cercare nelle molte figure che spesso simili a fantasmi attraversano i suoi testi riscontri reali e/o biografici – è la vitalità della scrittura, la sua energia d’arte in atto a dover importare. E dice molto bene Carla Saracino (mi fa molto piacere ritrovarla qui) nella sua sensibile, delicata, penetrante Prefazione che «Risuonano, in questi versi, tra le città invischiate nel quotidiano uggioso, i passi liquefatti dei volti cari e spariti; di chi è rimasto solo come ombra, di chi accenna a un ritorno che non sarà mai più come quello originario; ma anche di chi sente, nel rapido schianto del mondo, malgrado tutto, il bene della condivisione, lo stare, inermi, incipienti, nella comune, fragile condizione umana».

mentre uscivi oggi
hai premuto ancora 
sul mio braccio 
come facevi sempre,
e ho seguito in silenzio 
la tua sagoma nella bruma,
nello sconcerto degli alberi
intirizziti dall'inverno.
Ho portato con me
il tuo fantasma
e ho mangiato con lui
dall'altra parte del tavolo
mentre fuori incombeva
la giornata piovosa.
Ho immaginato
che fossi ancora qua
fuori del mondo
avvolta con me
nella nostra coperta
a proteggerci
dal tempo
(p. 62)



la foglia cade e null'altro
nel vuoto teatro dell'inverno,
a terra non fanno più rumore
i corpi accartocciati
delle nostre illusioni,
ti ho scritto stamane
guardando la foglia,
non ricordo cosa,
e ancora ti vedo nella città blindata
registrando il rumore della vita 
che si assottiglia,
da qualche parte qualcuno esplode
ci sono voli di elicotteri
e corpi speciali e il lamento
del Corano verso sera, 
la storia è un quadro
che avevamo supposto
ma l'esistenza è incerta,
riflessa nell'insegna gialla
dell'hotel
(p. 63)



nel buio ascoltarti
mentre dormi e sapere
che sei qui,
che qui rimane
il nostro nulla
ora e per sempre,
nel vuoto intorno
c'è il vento di maggio,
l'odore umido dei fossi,
ti accarezzo la testa
perché tutto accade
anche senza di noi,
sei un piccolo animale
da liberare in fretta 
prima che torni
la luce
(p. 81)



il cemento sul tetto della casa
è ormai coperto da uno strato 
di tegole simmetriche
ripensi all'anno prima
alla casa nuda ancora
in costruzione quasi smarrita
dentro la campagna
così le cose vanno avanti
circondate dagli eventi
le stagioni le estinzioni
i nuovi corsi e i necessari
oblii, nulla che fermi
il tempo, anche i ricordi 
ormai hanno vita interinale,
i visi poi si sfaldano
nei soffi della nebbia
(p. 84)

         In Cartoline degli addii alcuni oggetti, pochi e concreti, quotidiani e altamente carichi di senso sembrano essere “correlativi oggettivi” dell’assenza (o del lutto o dell’allontanamento): il «binario» (pp. 15 e 16), lo «spillone per capelli» (p. 24), «le nostre tazze, la coperta, / la sdraio» (p. 29), insieme con il Leitmotiv della foto: «la foto non c’è più / ed era un baluardo / al tempo» (p. 32), «[…] quella foto / ritrovata per caso nel pc» (p. 40), «la foto serbata / nel telefono è l’unico / reperto che ho di te» (p. 78), «[…]la foto / che come un santino / riposa nel telefono» (p. 79), fino all’affermazione perentoria e dolorosa, in qualche modo ultima: «Bisogna smettere di fingere che / ci sia qualcosa invece del nulla, / […] / sperare di non sperare / più» (p. 55).

          Ma ribadisco che Cartoline degli addii è anche un libro d’amore, pur cantato quest’ultimo, il più delle volte, in absentia, dal suo “rovescio” che consiste nella consapevolezza che l’amore è destinato a finire (magari con la morte di uno degli amanti) oppure inseguito nel suo ricordo, rintracciato nei suoi pochi, impallidenti resti; bastino, a conclusione di questo attraversamento, i magnifici versi che seguono: «appoggio la bocca / alla tua schiena / che adesso morderei / fino a scavarmi un buco / dove posare / le parole e i gemiti / assieme al silenzio» (p. 85).

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