Su Via Lepsius Antonio Devicienti ci regala un’analisi perfetta di Cartoline degli addii di Alessandro Cartoni.
nel piccolo schianto / del tempo: su “Cartoline degli addii” di Alessandro Cartoni
di Antonio Devicienti. Via Lepsius
Chi fosse in cerca di un libro in poesia dallo stile sobrio ed elegante, dalla dizione impostata con consapevolezza ed estrema attenzione, del tutto privo di sentimentalismi e contorcimenti solipsistici pur affrontando un tema che facilmente potrebbe tradire chi scrive, prenda in mano Cartoline degli addii (Fallone Editore, Taranto 2022) di Alessandro Cartoni.
I settantasei brevi testi tutti privi di titolo e costituenti un unico corpus poetico hanno come tema portante (e basso continuo) quello della separazione, dell’assenza, del ricordo, del tempo che passa, del disfarsi ineluttabile dei legami. È allora chiaro perché parlavo del rischio di derive sentimentalistiche, piagnucolose e solipsistiche che Cartoni evita in forza di una scrittura evidentemente esercitata con passione e umiltà sugli esempi migliori della poesia italiana e al tempo stesso rivista, limata, sorvegliata con certosina attenzione fino a ottenere testi non lambiccati, ma, al contrario, di luminosa presenza e forza.
nel bianco orizzonte dell'inverno così ti ho ritrovato con le braccia nodose le tue gambe forti e c'erano anni davanti mesti e deliranti ed eravamo noi senza conforto alcuno, ti guardo ti scrivo mi guardo le scarpe oggi nella ruggine del binario, ricordo tutto, anche gli addii doloranti le erbe che ingiallirono nella tua durezza l'illusione del futuro il termine corsa (p. 15)
Si noti, già nel testo che apre il libro, l’iniziale minuscola, caratteristica di tutte le liriche di Cartoline degli addii, le quali, pur riferendosi a circostanze, a momenti e a persone differenti, sembrano voler costituire un discorso in versi unico, ritmato e intervallato soltanto dagli a capo tra verso e verso e dallo stacco da un testo all’altro (esistono solo due esempi, alle pagine 16 e 59, di suddivisione in strofe); i versi, liberi (pur con rare rime o assonanze, ma caratterizzati spesso dall‘enjambement), sono pressoché sempre brevi, essendo il settenario la misura di riferimento e il lessico è quello del sermo cotidianus senza mai affioramenti dal registro basso o, viceversa, alto; la sintassi è sempre chiara e priva di contorcimenti; non esistono opacità o ermetismi nel libro di Alessandro Cartoni, né giochi di parole, ma una cristallina volontà di dire e di farsi capire senza difficoltà o incertezze.
Altra caratteristica (fondamentale) di Cartoline degli addii è l’insistita presenza del “tu” che, di volta in volta, sarà la persona cui l’io lirico direttamente si rivolge oppure sé stesso, intessendo, in questo secondo caso, un dialogo interiore che è meditazione e, in entrambi i casi, apertura verso uno spazio e un tempo dai quali si attende risposta – ma è proprio l’assenza di risposta a costituire uno degli argini significanti e commoventi di Cartoline degli addii – ché non c’è dubbio alcuno del fatto che questo libro possa e sappia toccare e muovere anche l’emotività del lettore, essendo l’assenza e il lutto esperienze comuni a tutti gli esseri umani.
Non appaia allora pignoleria fine a sé stessa il fatto che richiami l’attenzione anche sul genere maschile del participio “ritrovato” del terzo verso: in molti altri testi la persona assente è chiaramente di genere femminile, per cui Cartoline degli addii si configura come un canzoniere (mi sia permesso impiegare quest’antica, desueta, bellissima definizione) della separazione, della perdita, dell’assenza, appunto, talvolta del lutto – ma non c’è alcun bisogno di legare il libro alla biografia dell’autore, di sapere chi siano le persone cui i versi alludono, quali le circostanze esistenziali della morte o dell’abbandono: una delle cause che a mio modo di vedere dà notevole valore al libro è proprio il lavorio sullo stile e sull’espressione, sulle cadenze ritmiche e sul lessico che, affrontando un tema in cui ognuno di noi può riconoscersi, ne varia le argomentazioni e le sprezzature linguistico-concettuali creando un’opera di poesia tout court.
un volo di neri corvi sulle stoppie lo scricchiolare del tempo che schianta nel sole, una falsa brezza che incombe sul giardino, così soli come siamo stati noi molto tempo fa, anche stamane il mio sguardo cercava nell'aria immota qualcosa di perduto mentre passavo e non ti voltavi così muta e silenziosa sei scomparsa nell'androne (p. 21)
Si osservi la mancanza del punto fermo a conclusione dell’ultimo verso, altra caratteristica di ogni testo del libro e la presenza di figure animali (qui i corvi, ma altrove saranno le lucertole, i gatti, i fagiani, gli istrici, le lepri…), mentre l’aggettivazione fa comprendere che il “tu” è, stavolta, di genere femminile: interessante risulta qui, come altrove nel libro, il discrimine sottilissimo e significativamente incerto tra presente e ricordo, tra percezione e visione, tra concretezza di luoghi e situazioni e loro sfumare o loro manifestarsi quale illusione o nostalgica malinconia. La strutturazione dei testi (precisa e rigorosa), le scelte lessicali e sintattiche (chiare e lineari) sono capaci, grazie alla maestria della scrittura di Alessandro Cartoni, di modulare immagini linguistiche ricche di sfumature e di transizioni (presente-passato, reale-immaginato, percepito-rimemorato, concreto-simbolico, luce-ombra) le quali caratterizzano a loro volta un libro che soltanto una lettura superficiale e frettolosa definirebbe “semplice e chiaro” – invece, come ogni progetto di scrittura consapevole e maturo, non dilettantesco, Cartoline degli addii va scavato e interrogato nelle sue ragioni profonde che riguardano lo stile e la struttura, i concetti e la lingua in quanto generatrice di testi che non si esauriscono affatto nella loro capacità (pur attiva) di commuovere.
È per questo che la presenza e l’alternarsi delle stagioni dell’anno, il ritornante Leitmotiv della neve, del giardino, del cancello di casa, del letto, delle stanze, della finestra (e via enumerando) intessono una meditazione sul tempo che passa e che, trascorrendo, strappa persone amate alla loro presenza, anzi, nella loro stessa presenza si rende già visibile il momento della separazione e dell’assenza:
mentre dormi sfioro la tua schiena ne seguo il profilo fino ai piedi osservo i tuoi capelli neri abbandonati sul cuscino e penso alla tarda estate e al giallo delle foglie, e al varco azzurro della finestra dove le stagioni fuggono nel piccolo tremore che scava nello stomaco, immagino il nostro amore e il nostro andare come tutte le cose verso la bruma d'autunno, poi sento il tuo respiro calmo e lento che attraversa la stanza, allora le cose diventano più chiare e si riempiono di senso, così chiudo gli occhi e penso che ci sei tu nel breve tempo di questo mondo (p. 89)
Sottolineo che leggere Cartoline degli addii pagina dopo pagina significa assistere alla reiterazione di situazioni di assenza, fino a questo testo (il terz’ultimo del libro) nel quale, inaspettatamente, la donna sembra essere, invece, presente, anche se gli ultimi versi esplicitano la consapevolezza della brevitas che caratterizza le esistenze umane; ma non si trascuri il fatto che la donna amata volta la schiena (è già pronta ad andarsene?) e che, in Cartoline degli addii, andrebbe studiato il valore dell’indicativo presente, in teoria tempo e modo della realtà, ma, nel lbro, nient’affatto garante di realtà e di presenza; e nella lirica successiva (penultima di Cartoline degli addii) si legge:
non ti ho mai chiesto di lasciarmi una ciocca sarebbe stato un segnale funerario oppure sarebbe andata persa nei traslochi della vita. Oggi penso a quei fili sottili del colore del rame muti testimoni di quello che eravamo, ora che il limpido inverno si appressa senza ritardi o dilazioni mi avrebbe scaldato un portafortuna per l'abisso per le ore innominabili per tutto quello che non c'è per il nostro domani inconoscibile e fosco (p. 90)
Se si fissa la propria attenzione sui versi «Oggi penso a quei fili / sottili del colore del rame» e li si confronta con «i tuoi capelli neri» del testo precedente, appare chiaro che non un’unica figura di donna è protagonista del libro, ma, appunto, vero protagonista è il congedo, la separazione, l’addio, anche la morte e, quindi, il tempo stesso che ineluttabile conduce alla separazione e all’assenza; se anche ci fossero spunti autobiografici sottesi al libro (e certo ci saranno), essi non sono né determinanti, né essenziali per leggere una scrittura che, invece, sa superare in maniera convincente e in forma d’arte il grezzo dato biografico; è per questo che l’ultima lirica può strutturarsi così:
ti perdo ogni giorno nel piccolo schianto del tempo, nel frantumarsi delle cose mortali, alla finestra aspetto la tua figura all'orizzonte, prego la tempesta che ti riporti indietro che mi riporti indietro, sul pontile della baia c'è il nostro amore che uggiola perduto nella notte e attende ancora noi, sotto la pioggia rimane immobile a guardare il bianco dei marosi che esplodono laggiù sulla linea del mondo (p. 91)
– potrebbe trattarsi dell’amore per la compagna (molto probabilmente), ma anche dell’amore per qualunque altra persona determinante nella vita di ognuno di noi (si noti l’assenza di aggettivazione che faccia decidere per uno dei generi grammaticali…) – la linea del mondo è l’esistere che, fin dai primi suoi istanti, esperisce il rapporto amoroso, è la vita stessa amore al mondo ferito, però, da lutti, separazioni, abbandoni.
Ma non si creda che Cartoline degli addii possa esaurirsi qui; propongo ora la lettura del testo seguente:
la noia s'addipana nei campi sgualciti dalla neve, gli animali al crepuscolo fiutano l'inverno che muore, la lepre che alza le orecchie, il fagiano che becca al cancello, l'istrice oscuro che inarca la schiena. Ma ancora tutto si muove a rilento nell'aria del nostro scontento (p. 31)
«la noia s’addipana» è chiarissimo richiamo montaliano e l’intero libro di Alessandro Cartoni mi appare ispirato dal magistero montaliano in una doppia forma: da una parte Cartoni continua e sviluppa alcune suggestioni novecentesche (il verso libero ma inserito nella forma del testo in sé conchiuso, il tema dell’assenza e del ricordo, la voce monologante che cerca un dialogo puntualmente eluso), dall’altra mette a frutto le risultanze delle Occasioni (ma non solo) e qui, in particolare, di quel capolavoro assoluto e indiscutibile che è La casa dei doganieri (il raro, bellissimo e indimenticabile “s’addipana”, segno, quindi, lessicale e linguistico di straordinaria pregnanza, ma anche il “tu” e, nel testo che ho riportato in precedenza, l’immagine dei “marosi”, ma non mi sottraggo neanche al pensare a Dora Markus – e lo stesso istrice fa riandare al porcospino di cui Montale scrive in Notizie dall’Amiata e in A pianterreno, per esempio, cioè a testi da due stagioni diverse e distanti della sua vita e poesia – e a pagina 28 il verso «come un talismano» è altra chiara presenza (o senhal?) montaliana, nonché il falco a pagina 45, o anche i versi «e una foglia scorreva / tra le pietre nella gloria / del torrente» a pagina 47, «è rimasta l’ombra tua / in queste stanze / dalla volta che vi entrasti / e vi lasciasti il segno del tuo corpo vero» a pagina 69 – ancora La casa dei doganieri…); ma la presenza in molti testi della neve assieme al tema del gelo e del bianco («l’ombra della quercia / s’allunga nera sulla neve» p. 27, «oggi hanno sparso il sale / le giubbe rosse della municipale, / ma c’erano ancora ragazzi […] / […] / coi capelli macchiati di bianco / fangoso, a tirarsi le palle» p. 30 – e anche le “giubbe rosse” che spalano la neve alludono a Montale? – «striato di bianco / è il campo arato / che dorme sotto / al gelo» p. 59, per esempio) fa pensare (pure nelle sue valenze simboliche) a un poeta conterraneo di Cartoni che è stato Francesco Scarabicchi – proprio il verso di Alessandro Cartoni a pagina 39 «c’è un largo prato bianco» è forse un esplicito omaggio a Scarabicchi? (e forse si potrebbe chiamare in causa, anche, il Cosimo Ortesta di Nel progetto di un freddo perenne), ma il paesaggio affiorante in Cartoline degli addii, pur così discreto e appena accennato, essendo certamente quello (peculiare e singolare) delle Marche e di Recanati (con poche eccezioni: New York a pagina 26, Milano a pagna 56), visto, in sovrappiù, nel ciclo delle stagioni, potrebbe rimandare anche a certi paesaggi di Umberto Piersanti, mentre l’eccelso Recanatese mi sembra nume tutelare ineludibile dati i temi della ricordanza e della lontananza, ma non solo: così come non è affatto necessario sapere, per esempio, chi fosse “davvero” Silvia (stolta curiosità che distrugge a priori la poesia e la sua capacità di suggestione), allo stesso modo, ribadisco, non è necessario, nella trasfigurazione che ne attua Cartoni, cercare nelle molte figure che spesso simili a fantasmi attraversano i suoi testi riscontri reali e/o biografici – è la vitalità della scrittura, la sua energia d’arte in atto a dover importare. E dice molto bene Carla Saracino (mi fa molto piacere ritrovarla qui) nella sua sensibile, delicata, penetrante Prefazione che «Risuonano, in questi versi, tra le città invischiate nel quotidiano uggioso, i passi liquefatti dei volti cari e spariti; di chi è rimasto solo come ombra, di chi accenna a un ritorno che non sarà mai più come quello originario; ma anche di chi sente, nel rapido schianto del mondo, malgrado tutto, il bene della condivisione, lo stare, inermi, incipienti, nella comune, fragile condizione umana».
mentre uscivi oggi hai premuto ancora sul mio braccio come facevi sempre, e ho seguito in silenzio la tua sagoma nella bruma, nello sconcerto degli alberi intirizziti dall'inverno. Ho portato con me il tuo fantasma e ho mangiato con lui dall'altra parte del tavolo mentre fuori incombeva la giornata piovosa. Ho immaginato che fossi ancora qua fuori del mondo avvolta con me nella nostra coperta a proteggerci dal tempo (p. 62) la foglia cade e null'altro nel vuoto teatro dell'inverno, a terra non fanno più rumore i corpi accartocciati delle nostre illusioni, ti ho scritto stamane guardando la foglia, non ricordo cosa, e ancora ti vedo nella città blindata registrando il rumore della vita che si assottiglia, da qualche parte qualcuno esplode ci sono voli di elicotteri e corpi speciali e il lamento del Corano verso sera, la storia è un quadro che avevamo supposto ma l'esistenza è incerta, riflessa nell'insegna gialla dell'hotel (p. 63) nel buio ascoltarti mentre dormi e sapere che sei qui, che qui rimane il nostro nulla ora e per sempre, nel vuoto intorno c'è il vento di maggio, l'odore umido dei fossi, ti accarezzo la testa perché tutto accade anche senza di noi, sei un piccolo animale da liberare in fretta prima che torni la luce (p. 81) il cemento sul tetto della casa è ormai coperto da uno strato di tegole simmetriche ripensi all'anno prima alla casa nuda ancora in costruzione quasi smarrita dentro la campagna così le cose vanno avanti circondate dagli eventi le stagioni le estinzioni i nuovi corsi e i necessari oblii, nulla che fermi il tempo, anche i ricordi ormai hanno vita interinale, i visi poi si sfaldano nei soffi della nebbia (p. 84)
In Cartoline degli addii alcuni oggetti, pochi e concreti, quotidiani e altamente carichi di senso sembrano essere “correlativi oggettivi” dell’assenza (o del lutto o dell’allontanamento): il «binario» (pp. 15 e 16), lo «spillone per capelli» (p. 24), «le nostre tazze, la coperta, / la sdraio» (p. 29), insieme con il Leitmotiv della foto: «la foto non c’è più / ed era un baluardo / al tempo» (p. 32), «[…] quella foto / ritrovata per caso nel pc» (p. 40), «la foto serbata / nel telefono è l’unico / reperto che ho di te» (p. 78), «[…]la foto / che come un santino / riposa nel telefono» (p. 79), fino all’affermazione perentoria e dolorosa, in qualche modo ultima: «Bisogna smettere di fingere che / ci sia qualcosa invece del nulla, / […] / sperare di non sperare / più» (p. 55).
Ma ribadisco che Cartoline degli addii è anche un libro d’amore, pur cantato quest’ultimo, il più delle volte, in absentia, dal suo “rovescio” che consiste nella consapevolezza che l’amore è destinato a finire (magari con la morte di uno degli amanti) oppure inseguito nel suo ricordo, rintracciato nei suoi pochi, impallidenti resti; bastino, a conclusione di questo attraversamento, i magnifici versi che seguono: «appoggio la bocca / alla tua schiena / che adesso morderei / fino a scavarmi un buco / dove posare / le parole e i gemiti / assieme al silenzio» (p. 85).