Domenica 2 Aprile 2023 – Synagoga di Diego Riccobene su Via Lepsius

Su Via Lepsius Antonio Devicienti recensisce magnificamente Synagoga di Diego Riccobene

“Synagoga” di Diego Riccobene: una proposta di lettura

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

          Quella che Diego Riccobene propone con Synagoga (Fallone Editore, Taranto 2023, Collana “Il Leone alato” nell’ormai classica articolazione in 12 poesie) è una litania consacrata al linguaggio e al disporsi del linguaggio in forma di versi e di strofe, sequenza di testi che si sostanziano di un lessico sceltissimo e altamente pregnante, non certamente quotidiano perché la scrittura in poesia è, qui, una deviazione consapevole dall’uso più diffuso del linguaggio e dal suo fine comunicativo; le scelte lessicali di Riccobene costringono chi legge a esercitare una costante attenzione del pensiero, senza abbandoni sentimentali, trovando il piacere del testo proprio nell’atto di addentrarvisi, successivamente di decifrarlo (ma mi sento di suggerire dapprima più letture consecutive finalizzate al solo ascolto del testo), di confrontarsi con una sorta di canto sinagogale che, nelle pieghe misteriose (MA NON ermetiche) del testo, fa intuire il farsi di un itinerario che attraversa la decadenza e le ferite del reale per riuscire a sanarle o, almeno, ad affrontarle nel linguaggio e attraverso il linguaggio. 

         Non è affatto casuale che l’etimologia del titolo del libro venga esplicitata già nell’ortografia: è il convergere insieme (σύν) in un luogo di riunione, Synagoga è infatti la pagina che ospita il testo-spartito – l’eventuale lettura ad alta voce è capace di dare al testo un’ulteriore dimensione che esalta il linguaggio nel suo mostrarsi come rito e nel suo disporsi in sequenze sonore dal momento che, se è ancora possibile il sacro e il suo rivelarsi, esso può forse darsi soltanto nel linguaggio che, riscattando sé stesso dalla volgarità e dagli usi strumentali che se ne fanno, si dispiega in membrature sintattiche ardue e in sequenze lessicali sceltissime. Il sacro è il linguaggio in quanto organismo vivente nel quale si articola il pensiero e che riflette il rapporto della mente con il mondo.

I
Non ha luogo, non l'atto d'impromettere
deissi al sostanziante
che cada purulento, formulario
su fonda volontà: s'è pronunciato
fonema d'estinzione, enteroclisma
palpebrato e simbionte.

Ma ti piegavi al fine, come ognuno,
fine non adempiuto
e scandito allo sfranto del tuo sesso,
inabitata escàra tuberosa,
originaria all'essere necrosi.
Che primamente muta.
(p. 17)


          Riccobene adotta una forma chiusa e, contemporaneamente, aperta: compone perfetti endecasillabi e settenari (non raramente sdruccioli, talvolta tronchi) che organizza in strofe, ma non ricorre alla rima, sì, invece, ad assonanze, a consonanze, allitterazioni eccetera. Si coglie una solennità nel dire che non è né stucchevole né fuori luogo, ma necessaria ed espressa proprio tramite una prosodia che a sua volta costringe il poeta a un inesausto e ferreo controllo sugli accenti, sulla distribuzione dei vocaboli nel verso, sulle sinalefi, sulle cesure, sulla composizione di quelle che chiamerei sì “immagini”, ma non in senso visivo (o non esclusivamente visivo), bensì sonoro e lessicale.

         Si veda, a mo’ d’esempio, il ricorrere del suono “s” (non a caso presente già nel titolo della prima parte Adescare) fino alle allitterazioni del nono verso, oppure l’accentazione di escàra, evidenziata anche dall’ortografia: il termine possiede due accentazioni, vale a dire èscara (tessuto necrotico destinato a essere sostituito da una cicatrice) ed escàra (focolare domestico e altare per i sacrifici); Riccobene colloca il vocabolo in modo che la sua seconda sillaba si trovi, all’interno dell’endecasillabo, in sesta sede, vale a dire che essa coincida con uno dei due accenti principali dell’endecasillabo classico italiano e questo viene rimarcato tramite l’accento grafico, forzando l’accentazione sdrucciola del vocabolo, ma anche facendo coincidere quest’ultimo con la forma piana, di significato però differente – sia chiaro che, dati i versi che precedono e seguono, è estremamente probabile dover propendere per il significato di èscara, ma la forzatura tonica conferisce al verso un ritmo e un’intonazione peculiari – il verso sarebbe potuto essere articolato anche come segue nel rigoroso rispetto dell’accentazione: “èscara inabitata tuberosa”, ma la forza della cesura dopo la settima è decisamente maggiore e più convincente nella soluzione voluta da Riccobene.

         L’articolazione in tre parti di cui la prima (adescare) è costituita da tre testi, la seconda (orare) da sei e l’ultima (confidere) da tre è indicativa anche di una struttura che, fondandosi sulla “sacralità” del numero tre e dei suoi multipli, persegue simmetrie formali in evidente ossimoro con la materia magmatica, disobbediente, sfuggente connotata dal linguaggio eppure da quest’ultimo riorganizzata in materiale verbale – se l’esergo del libro è una citazione da Sebastian Brant e dalla sua Nave dei folli e se il testo IV contiene il nome della dea Inanna e fa riferimento al ciclo di Gilgamesh questo significa che Riccobene abbraccia con Synagoga un arco temporale che sconfina nella mitologia e che, saldandosi al tema della stultifera navis di marca rinascimentale, discende negli inferi della nostra contemporaneità. Ma più che provare a “decifrare” i singoli passaggi del testo (operazione che si può sempre compiere, ribadisco, in una fase successiva di lettura) sono convinto che occorra innanzitutto abbandonarsi al fluire del testo lasciandosene pervadere, perché il linguaggio è anche musica e incantamento, giuntura tra razionalità del dire e dell’argomentare e pura percezione di suoni e d’immagini, di silenzi e d’intervalli.

 

VI
Genitura del fuso detestabile,
conosceva la pratica:
lo sbavare del cranio del puledro
sul talamo corroso,
tiepidire la cera – poi l’assidere
sull’incuneo concusso nel fibroma.

Voi teurgi risibili! Da vivi

non sapete che volgere midolla
con quell’arte cagliata
nell’inimico gelo spaccherà
la cruna della vipera,
e il margravio darà breve ristoro:
affrettatevi a sedi più scoscese,

raschiatene le croci.
(p. 25)



VIII
Il corbame, da luce ischeletrita
che lebbrosia conculchi, che ne faccia
dirupo al guardo. Poi ne sopraddice
la testa di vitello, se crepata

da bolo e lucro adeso alla matrice
di questo Male.
(p. 27)



XII
Rinnego, abiuro e detesto l’errore
pur nell’inciso sul Libro di Ferro,
rinnego mali e misture implicando
piaghe passate a preciso risalto,

e prego fino all’acuzie del nero;
tratto l’apostata come lo stremo
nell’impostura che preme la semina
di un’addopata coscienza, la chiamo

per il dissesto, sì quanto rinnego;
detesto il grasso tramaglio del corpo,
scarificare vorrei la mia torba
pendice morta, vorrei compassarla

con l’adamante che ingorga prestezza.
Le vostre sorti mi ammorbano, ometto
ciò che commisi, lo strappo del velo
sotto grottesche istoriate d’errore:

logoro pasto che adesso rinnego,
detesto il vuoto, il non-ente che insorge
nell’improvviso indurare del ventre,
abiuro a vita, mistero e stupore.
(pp. 33 e 34)

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