Su Via Lepsius Antonio Devicienti scrive del volume Dal tempo qui raccolto di Antonio Prete e Carla Saracino.
Un libro di fogli d’alga e margini d’aria: su “Dal tempo qui raccolto” di Antonio Prete e Carla Saracino
di Antonio Devicienti. Via Lepsius
Non un “dialogo” o un’ “intervista”, ma una conversazione in due tempi (2006 e 2022-2023) è quanto è intercorso tra Carla Saracino e Antonio Prete e che appare ora in forma di volume per i tipi dell’Editore Fallone di Taranto: Dal tempo qui raccolto. Una conversazione (103 pagine pubblicate nella Collana I Labirinti concentrici).
È un libro raffinato e cordiale, capace di catturare dalla prima all’ultima pagina, nato dalla volontà di Carla Saracino di esplorare in modo rispettoso e ammirato (ma senza piaggeria) l’universo dell’opera di Antonio Prete e dalla naturale inclinazione di quest’ultimo a parlare della propria scrittura con innata modestia e dolce affabilità.
Conversare è, poi, splendido atto di scambievole ascolto che presuppone e desidera un proprio protrarsi nel tempo malgrado le incombenze delle rispettive vite quotidiane e le distanze geografiche.
Scrive benissimo Carla nella sua Premessa: «Il titolo di questa conversazione è un omaggo ad Antonio Prete. È tratto da un suo verso contenuto nella silloge Tutto è sempre ora (Einaudi, 2019) e completa il senso del nostro incontro, il suo manifestarsi negli anni tra intervalli, nuove occasioni, ritrovamenti. Soprattutto, arriva dal desiderio di non porre fine a una conversazione, ovvero da quell’antica volontà di richiamarsi, dando alle parole la direzione di una traccia in cui abitare» (p. XI). Quindi viene rievocato il primo incontro avvenuto a Copertino nell’estate del 2006 e il successivo a Siena allorché Carla Saracino preparava la tesi di laurea dedicata all’attività critica ed ermeneutica di Antonio Prete. Dopo quel lavoro preparatorio e la tesi di laurea sono trascorsi degli anni durante i quali l’interesse di Carla non è mai diminuito, fino a giungere alla primavera del 2022 quando cominciò a nascere la seconda parte della conversazione.
Scrive Carla Saracino: «Il tempo intercorso […] ha rivelato anche le sue pause, i suoi rallentamenti, quegli interstizi talvolta così importanti, aperture o frange da cui passano, sottilmente, le intenzioni silenti, le parole che continuano a riecheggiare nelle rispettive interiorità, malgrado la lontananza o il non assiduo vedersi. Del resto, i legami si inverano nella loro saldezza alla fioritura della raccolta: quando a ritornare è il ricordo di una conoscenza originaria che poi si compie in frutto e trasformazione» (pp. XII e XIII) e poco oltre: «Si tratta di un corrispondersi nell’ascolto, di un viaggio ermeneutico che non sosta sulla pagina per abitarla passivamente: due voci che sanno di stare nella fragilità del linguaggio, nella sua preziosa vulnerabilità. […] Riflettendo sulla corrispondenza tra i linguaggi e sulle figure di senso che sono emanazione ed eredità di un pensiero interiore, il volume si forma tra i ritmi del tempo e i sospiri dei luoghi che lo abitano. Nello scambio di due voci che si invitano all’ascolto reciproco e alla costruzione di un comune cammino, il lettore può aggiungersi, riconoscendo nella relazione interpretativa l’ospitalità di un processo di conoscenza del mondo interrogante, aperto, mai finito» (pp. XIII e XIV).
È così che, aperte le due ante del dittico, si attraversano due tempi di una conversazione durante la quale si assiste a una sottile evoluzione: nel primo tempo traspare talvolta uno stato d’animo che Carla Saracino medesima nella Premessa descrive quale «molta apprensione» nell’accostarsi all’opera di Antonio Prete «consapevole di avere l’oneroso impegno di elaborare una estesa esperienza biobliografica» (p. XII); nel secondo tempo le domande, spesso più ampie e articolate, di frequente caratterizzate da una bellissima ed elegante formulazione, testimoniano il cammino artistico e personale di Carla Saracino che la conduce ad abbandonare definitivamente un qual certo timore reverenziale per aprirsi a un dialogo più franco e diretto; Antonio Prete, da parte sua, non rinuncia mai all’affabilità che lo caratterizza e da un primo tempo incentrato soprattutto sui risultati del proprio lavoro critico-ermeneutico, nel tempo successivo racconta molto più distesamente della propria opera in poesia – e tutto questo accade per motivi precisi: da una parte ci sono le domande che, ovviamente, orientano il discorrere verso direzioni ben determinate, dall’altra il primo libro in poesia (Menhir) viene pubblicato nel 2007, vale a dire un anno dopo la conclusione del primo tempo di questa conversazione e i successivi libri in versi cadono tutti negli anni che preludono al secondo tempo – io stesso ricordo ancora bene l’entusiasmo e la curiosità che suscitò in me la notizia della prima pubblicazione presso Donzelli, dal momento che da diversi anni leggevo e apprezzavo i libri di Antonio Prete, compresi quelli più propriamente narrativi, ma non mi aspettavo un’opera in versi che (si legge ora in Dal tempo qui raccolto) andava maturando negli stessi anni in cui venivano via via pubblicati i lavori critico-ermeneutici, ma nell’ombra di un esercizio privato, noto a pochissimi amici e che affondava le proprie radici nella prima adolescenza – anche se, a osservare la qualità dello stile, in quegli stessi libri critico-ermeneutici si coglie una prossimità ai ritmi della poesia nutriti non soltanto dall’oggetto di studio che è, spesso, l’opera poetica notoriamente di Leopardi o di Baudelaire, di Char o di Luzi e di moltissimi altri…
A tal proposito mi permetto di segnalare che ho già scritto altrove che Prosodia della natura (regalatomi nel suo stesso anno d’uscita, il 1993, dal mio fraterno amico Pasquale Fracasso) fu e resta uno dei libri di Antonio Prete da me più amati, ancora oggi fonte di ispirazione e pietra di paragone sia per quel suo porsi tra poesia e indagine critica, sia per quella sua eleganza e fascinazione linguistica e stilistica che lo rendono un cammino sempre foriero di nuove scoperte e di rinnovate suggestioni – e sono contento di ritrovare anche in questa conversazione ripetuti riferimenti a quel libro, per esempio: «Quanto alle strutture espressive, mi sono trovato a privilegiare le forme brevi. Forse anche perché in esse potevo più facilmente vedere il rispondersi della poesia con la prosa, del saggio con la poesia, del pensiero critico con il movimento narrativo. Tra queste forme brevi sento il frammento come più prossimo, diciamo così, al mio modo di vivere la scrittura. Ricordo il tempo in cui scrivevo Prosodia della natura – un libro appunto di frammenti – come un tempo in cui sentivo un forte accordo tra i modi del pensare e i modi espressivi, e avvertivo una sorta di prossimità interiore alla forma del dire» (pp. 67 e 68).
In Dal tempo qui raccolto si riflette a lungo, infatti, sulla scrittura quale movimento incessante, interrogazione e dialogo; si legge a pagina 20: «[…] ogni ermeneutica è dialogica, è cioè fondata sul domandare e sulla recirpocità: il testo si fa vivente e interrogante, e l’interprete vive in questa relazione, trasferisce in questa relazione, in questo domandare, parte della sua esperienza di vita» – e a pagina 64: «[…] peregrinare per generi e forme espressive mi è sempre sembrato naturale e anche necessario, se consideriamo l’atto dello scrivere un esercizio di conoscenza di sé e allo stesso tempo un’attività esplorativa, e di conseguenza sperimentale. Dico sperimentale nel senso primo, cioè come ricerca, esercizio, prova».
In tal modo (come sempre quando s’incontra l’opera di Antonio Prete) si aprono orizzonti vasti e luminosi che sono gli stessi del vivere, dei rapporti amicali, delle geografie interiori e reali, dell’insegnamento (cui sono dedicate pagine davvero interessanti), della memoria, della partecipazione civile e politica (dai movimenti sessantottini all’alluvione di Firenze, dal risoluto pacifismo all’impegno per la democrazia); si rinnova insomma la percezione di una gioiosità e di un calore (umano e intellettuale) che sempre s’irraggia dai libri di Antonio Prete e che Carla Saracino sa riattivare con quel suo modo di domandare che davvero nulla ha dell’intervista, ma tutto, appunto, della conversazione che, per essere tale, richiede anche complicità e simpateticità, curiosità e ascolto. È per questo che i nomi degli amici e/o maestri più cari (Majorino, Luzi, Zanzotto, De Signoribus, Anedda, Fortini, Tabucchi, Loi, Tiziano Rossi, Mario Apollonio, Caproni, Edmond Jabès ovviamente e mi scuso per le numerose omissioni), delle città della propria vita (Copertino, Milano, Bolzano, Firenze, Siena…), dei libri pubblicati si dilatano tutti in storie, in ricordi, in un intrecciarsi continuo di vita e di scrittura; annoto allora, tra i moltissimi passaggi che andrebbero sottolineati, il seguente: «Quanto al rapporto della scrittura con la vita, per certi aspetti possiamo dire che la scrittura è non rappresentazione della vita, ma vita essa stessa, e in questo senso nel suo divenire e nel suo definirsi mette in gioco la nostra interiorità, il nostro sguardo sul mondo, il nostro rapporto con gli altri. Per altri aspetti la scrittura non coincide con la vita, ma è un esercizio che ci permette di scorgere modi e forme del vivere e di affrontare le loro sfide; ed è anche specola dove si può conoscere la condizione umana, e leggere il tempo presente» (pp. 96 e 97).
Osserva Carla Saracino riferendosi ad autori da lei frequentati e amati: «Esiste un Mediterraneo inattuale: appare nelle “amare giade dell’insonnia” di Vittorio Bodini, nei fiammiferi che Lorenzo Calogero sfregava sul muro della sua stanza a Melicuccà, nella “memoria attaccatra ai soffitti” di Leonardo Sinisgalli; lambisce le spiagge di Eubea nei versi greci di Kikí Dimulà o i paesi dei pescatori nelle suggestioni liriche dello spagnolo Carlos Barral. Albert Camus, affratellato in termini di origini alle atmosfere di cui stiamo parlando e autore a lei caro, scrivendo di Algeri diceva che lì piaceri e dolori sono “a profusione, senza consolazione”. In alcuni dei suoi Saggi Solari mette in rilievo proprio questa eccedenza irrimediabile di vita che caratterizzerebbe i popoli mediterranei: una consunzione repentina, l’esposizione alla bellezza senza rimedio» (pp. 76 e 77) – Antonio Prete (qui come altrove) accetta e sviluppa le suggestioni proposte, afferma, tra l’altro, che «La poesia […] è la terra di un investimento di sé totale, vita nella vita, vita che raddoppia la vita. […] E si tratta […] di un rapporto particolare con quella dimensione che possiamo dire antropologica in senso lato e insieme musicale, di una musica non mentale ma corporea, in dialogo con la danza» (p. 78) – in effetti è sempre il corpo che scrive e che legge, che viaggia e che incontra altri corpi, che ricorda, che sente il mondo, che ama, desidera, o che subisce le guerre e la violenza, che assume su di sé la fatica e l’angoscia della migrazione a essere protagonista di questa conversazione; è il corpo degli amici, anche quello non più vivo di alcuni di loro, è il corpo di tutto il vivente e non ultimo quello della lingua a permettere (e a volere) l’andirivieni di pensieri che Dal tempo qui raccolto è insieme con quel grande liquido amniotico in cui tutto questo è immerso e di cui respira, grazie al quale respira: il tempo.
La bellezza del libro risiede infatti anche in questo respirare comune cui i lettori sono invitati a partecipare, in questo ritmo sistolico e diastolico, di inspirazione ed espirazione che dà senso al conversare proprio perché è la vita che si dà a vedere e a sentire in forma di parola.
Si legga dunque Dal tempo qui raccolto anche come una cartografia del pensiero e dell’opera presente e futura di Antonio Prete, come una discretissima e sicura dichiarazione d’intenti da parte di Carla Saracino: chi ancora non conoscesse i libri dei due autori ha un’ottima occasione per andare a cercarli, chi, viceversa, li avesse già incontrati, avrà modo di entrare anche nell’officina della scrittura e del pensiero in particolare di Antonio Prete, scoprendo che (del tutto a ragione) la poesia “in proprio”, adesso che è giunta più volte alla pubblicazione, costituisce un ulteriore continente di cura e di attenzione da parte di Prete, sempre esercitate con quell’umiltà vera e mai affettata che lo contraddistingue; tra l’altro viene annunciato il prossimo libro in poesia che verrà pubblicato da Einaudi e che s’intitolerà Convito delle stagioni – proprio in conclusione di Dal tempo qui raccolto Antonio Prete cita alcuni versi della poesia Il libro che non scriverò mai e dalla quale ho tratto le due espressioni con le quali ho voluto intitolare questo mio intervento anche perché, interrogato da Saracino «[…] lei verso chi o cosa sente di dove andare ancora incontro in questo qui e ora?» (p. 95) Antonio Prete parla di molti progetti in fieri e di trovarsi sulla «soglia del possibile» (p. 97) – splendida espressione che compiutamente esprime quanto ricorre in tutta la conversazione, vale a dire che il libro sognato e immaginato e desiderato non è stato ancora scritto e non potrà mai essere scritto perché il linguaggio non è capace di dire tutta la complessità e la potenza del vivente, ma vi allude, cerca di avvicinarvisi, di esserne almeno specchio, ne misura la distanza (e la lontananza), ne ha nostalgia e desiderio, lo immagina, ne fantastica e ne riconosce le tracce, oscilla tra possibile e impossibile. La salentinità e la mediterraneità, la lingua materna in senso letterale (trasmessa dalla madre) e metaforico (quella che si sente prossima al proprio mondo interiore e che meglio lo sa esprimere), la cura e l’amore per la lingua, i testi degli autori più amati, la generosa voglia di trasmettere a lettori e a studiosi più giovani un sapere così caldo e umano, i propri testi stessi che al meglio mostrano questa spinta, questa tensione, quest’amore, questo slancio, questa passione vitale costituiscono i vortici di energia che si possono attraversare in ogni pagina del libro.