Antonio Devicienti, Sentieri saggi e racconti sul corpo della scrittura, Fallone editore, 2023, pp. 88, € 16,00
Ci sono libri che ci fanno sentire intelligenti anche se complicati perché comunque possiamo comprenderli subito, anzi ci sembra di capire proprio tutto o di intuire persino quello che non è così evidente. Questo è uno di quei libri. Pochi altri autori: Pascal Quignard, Harald Weinrich, Antonio Prete, Jean-Christophe Bailly, Valerio Magrelli saggista, Angelo Maria Ripellino, Giorgio Agamben, Vito Teti e qualche altro.
Parlare della scrittura, anzi del corpo della scrittura e seguire le tracce di questa lungo sentieri a volte scoscesi, a volte più accomodanti e non annoiare mai, era una scommessa difficile da tenere. Antonio Devicienti ci è riuscito.
Il saggio (anche se il titolo usa il plurale, per noi si tratta di un unico saggio) si articola in tre parti: la prima s’intitola: Guardare. Immaginare. Andare. (l’occhio la mano); la seconda: Il vuoto. La cancellazione. Fessurazioni (Un orecchio-Passi); e infine la terza parte: Torri. Porte. Soglie. (Una danza, un’abluzione). Titoli che vogliono inglobare parecchie cose, anche se poi ogni sezione porta in sé una chiarezza, la prima è il comporre, la seconda è il lavorare, la terza è il confronto. Tutte e tre come in una sciarada formano un tutto: la creazione artistica.
Dicevamo tre verbi per la prima parte, a ben guardare, verbi impegnativi e necessari perché sono alla base dello scrivere, del leggere e del comprendere. In realtà, recensire questo libro non è tanto facile perché ci sono troppe cose da citare e Antonio Devicienti procede un po’ alla Montaigne, per sbalzi e saltelli poi si ferma, torna indietro, si sofferma, si riparte. Intanto il corpo della scrittura prende forma, dal magma nasce qualcosa.
Ovviamente l’inizio del sentiero principale non poteva che partire da Recanati con Leopardi che del guardare ha scritto molto; poi si passa dai pittori Giacomelli, Licini e ai poeti Cavalcanti e Celan saltando tranquillamente i secoli. Si cammina e si scopre moltissimo: «scrivere è andare perché nello scrivere si acquista un ritmo che consente di procedere per mezza riga, o due, o tre, poi può accadere che ci si arresti, che si distolga lo sguardo dal foglio» (p. 22) riprendendo la lezione di Bachelard, e del suo sognatore delle parole, e questo a chi legge capita molto spesso, perché una riga, o anche una semplice parola fa spostare l’attenzione verso altro. Ma non si tratterà piuttosto di distrazione? Non direi, piuttosto un altro guardare, in fondo ha poca importanza, il distratto è anche il curioso, il curioso è colui che non perde occasione per imparare qualcosa di nuovo.
Nella seconda sezione si parte da Antonio Machado e dalla sua idea che il «cammino si fa andando». E quindi in un attimo un nuovo sentiero si offre al nostro sguardo meravigliato e ci spostiamo sulle rive del mare Baltico con la pittrice Vjja Celmins e le sue meravigliose onde. Il corpo della scrittura si sta formando a poco a poco, pittura e poesia sembrano essere i giusti ingredienti, e Domenico Brancale, poeta lucano, con la sua voce «tenta di sconfiggere l’opacità e l’illusorietà del reale, di penetrarne la tramatura» (p. 39); paesaggi del sud, che sfiorano la Puglia tanto amata da Ingeborg Bachman ma che si aprono in una dimensione nuova, trans-frontiera, un luogo della scrittura (forse il corpo stesso) che va dalla Boemia spostata sul mare come in una lirica l’ha immaginata Bachman (qui tradotta da Camilla Miglio), fino a Kyoto con Giulia Niccolai.
Questi sentieri che s’inoltrano nelle varie forme dell’arte ci permettono di spaziare non soltanto geograficamente ma anche culturalmente, tra Basho, De Martino, Cassano, e tanti altri fino a Mary Ruefle, maestra della “cancellatura” e delle ri-creazioni (in tutti due i sensi, che indicano che dopo il gioco viene la parte più seria). E infine, giunti alle soglie del terzo territorio dove s’innalzano porte e torri, oltre Celan troviamo anche Montaigne e Hölderlin, Werner Herzog e Anselm Kiefer e tantissimi altri, ma Antonio Devicienti ci spiega egli stesso il motivo di questa densa scrittura a balzi: «infatti questo libro (che va facendosi per cammini della lettura e del pensiero, e pause e indugi, tentennamenti e indecisioni, svolte, scarti, salti, biforcazioni prima delle quali ogni volta decidere una nuova direzione) ha ora desiderio di sdoppiarsi, di farsi libro-elenco di capanni, granai riattati, ex-autorimesse dove il necessario isolamento ha generato opere-dialogo» (p. 64).
Perché, in fin dei conti, giunti alla conclusione dei numerosi sentieri del libro, e alla fine ciò che importa è che tra il lettore/fruitore e le opere d’arte vi sia un continuo dialogo costruttivo, perché questo è lo scopo dello scambio, ed è l’unica cosa in grado di farci crescere e forse, malgrado tutto, di cambiare il mondo in meglio. E questo piccolo volume intenso ne è sicuramente una prova evidente.
René Corona