Angelo Restaino “Contrada dello Zodiaco” Fallone editore, 2021
La silloge di Angelo Restaino Contrada dello Zodiaco, tutta giocata sulle percezioni del qui-adesso, che non di meno alludono all’oltre, permeano il presente, apparendo come un continuo passaggio dell’ago tra una membrana che collega le due sfere, ora considerate non più come incompossibili. La mente può vivere questi due stati, tramite la propria immaginazione, di cui la poesia di Restaino è concretissima testimonianza. Se ne ha subito un assaggio nella prima poesia della raccolta Labirinto, in cui le case “accumulate insieme senza regole” crollano per il terremoto del 23 novembre 1980 come “al soffio del lupo gote gonfie”. Immediata è la percezione, nel lettore, della favola dei tre porcellini, come se fosse un fatto inerente al sisma. Come può, infatti, separarsi l’effetto di realtà dal portato immaginativo? Non è possibile; si tratterebbe a tutti gli effetti di un impoverimento, di una perdita. E fra l’altro, non sarebbe nemmeno una valutazione veritiera.
Opera prima della maturità, quando si ha una ben chiara e distinta visione della funzione e del ruolo di ciascuna nostra sfera esistenziale (percezione, amore, intuito, riflessione, ecc.), il libro di Restaino si muove, con le rare rime e le numerose allitterazioni, dal canto (il canto, elemento presentissimo nella parte iniziale della silloge sta per adesione alla totalità, di contro a una percezione puntuale) alla riflessione. Il soggetto lirico è un oggetto-io, un io-cosa, un io-materico, intrappolato nella sua costellazione percettiva, mai chiuso però nella sola gabbia spazio-temporale. Ne fanno fede non solo i numerosi prestiti (da Lucrezio alla fisica quantistica) quanto piuttosto le relazioni fittissime con un’altra dimensione del sé: quel sé-tutto, capace di accogliere nel guscio personale, oltre alle risonanze del reale esperito, quelle enigmatiche dell’oltre presagito.
Nel finale di Genealogia dei codici è esplicitamente dichiarata la fusione tra spazio e tempo come fatto mentale: “(una notte e una valle conclusa)”, dove spazio e tempo si scambiano le estensioni cartesiane. La nostra mente appare coincidente con quella del dio, mente superiore che tutto contiene:
così usciamo tutti armati dalla mente
di un dio: siamo un grumo di coscienza
capace di proiettare ombre,
bruciatura sul piano dell’essere
– membrana di mucosa o di cellophane –
causata dall’umore del sole.
Splendida immagine che dalle caverne di Platone arriva a scrivere direttamente sulla pelle umana! Quell’essere parminideo per il quale tutto è uno, ma al quale faticosamente bisogna giungere. Niente è immediato! Bisogna risalire dalle proprie percezioni, a quelle attenersi, e inglobare senza nulla escludere.
Gli archivi frequentati dal Restaino, paleografo di professione, sono una parte documentale in cui è impossibile che non sia scritto anche altro, rispetto alla vulgata della nostra morte, considerata come fine definitiva. Aprire un codice è come sollevare il coperchio che rinserra brusii, voci, moti, odori di acqua, di pesci e di annegati:
il loro canto emerge in bollicine –
– braille stenogrammi o forse morse,
un ricordo al futuro per la loro morte.
Altrettanto vero è che se passato e futuro convivono nel presente, le cose del futuro incombono nel nostro quotidiano. Quelle cose accadranno (“mellonta tauta” frase greca che è anche il titolo di un testo di Edgar Allan Poe). Tuttavia, la difficoltà di comprendere sembra dipendere da un vero e proprio “difetto della vista”, perché se è vero che abbiamo un apparato ottico fra i più possenti della natura, esso ci spaventa, gli attribuiamo il potere di distoglierci dalla comprensione interiore. Quei molti mondi che non vediamo, quelle distanze che crediamo reali sono un aspetto che se costruisce la nostra possibilità di esistere, al contempo ci toglie la possibilità di vedere al di là dello specchio. Certamente quella di Restaino è una voce poetica che si dibatte tra stanze e illimitato, tra esistenza e morte, tra pensieri e percezioni, ma non come fossero due concetti antitetici, bensì come fossero due facce inestricabili di uno stesso volto che saldano assieme il finito e l’infinito. La splendida poesia Bianca rende il continuo tentativo di pensarsi in forma materiale e in forma immateriale.
E in fine la mia rabbia si fa rossa,
sogna altre rivoluzioni, striscia
si annoda sinuosa e si divincola,
brilla mentre peggiora, e prima
di esplodere in un lampo silenzioso
si srotola quasi una linea
come una frustata sibila
si fa noia, si ricorda che cos’era,
diventa acuta come un ultrasuono
rimbalza sul nero muro metallico
con un do puro di tuono, in un ultimo
anelito di gloria si fa d’oro,
e prima di venire risucchiata
nel nulla in cui si aggirano rancori
come cani in mezzo alle discariche
sorge sul mare ed è un segno bellissimo,
un fuoco d’artificio per tornare a casa
(l’ultimo di cui si avrà memoria)
e senza dare il tempo di pentirmi
si fa sabbia di calce e in fine bianca.
Una poesia che, pertanto, è esperienza di un nuovo paradigma scientifico e che proprio attraverso gli obbligati ordinamenti spazio temporali sa far affiorare memorie, preveggenze, consapevolezze estranee alla sostanza. L’ironia sottilissima e affettuosa del poeta, con la quale egli sistema il proprio vissuto, così come il vissuto di ciascuno di noi, lascia il posto, alla fine del volume, a una riflessione più stringente e assertiva su alcune percezioni-meditazioni che riguardano noi e la compresenza dei nostri cari, anche quelli non più in vita, in una sorta di coagulo mentale, che diviene assolutamente ingiusto liquidare come illusione.
A sostegno della mia lettura, riporto la poesia Crania, nella quale il disseppellimento di teschi animali, che non può esaurirsi nella valenza del presente e della sostanza, travalica sfondando tempo e spazio.
Sorge una collana di pianeti in fila.
Affiorano denti, come per rinascere,
dalla terra battuta sfatta in sabbia
sulla riva del lago: ecco un rompicapo
per archeologi in vacanza. Ci chiniamo
entusiasti alla scoperta, bello il twist
verso il passato, verso il giallo, verso il nero
del plot dei nostri giorni di diporto
a circumnavigare specchi d’acqua.
Ci mettiamo a scavare con le dita.
Ora Linneo sorride, splende il sole
ed estraiamo trepidanti una mascella
e basta, tutto intorno. Riprendono
a scherzare i bambini sulla spiaggia
lacustre, si riaccende netto l’audio.
Se potessi descrivere il tuo gaudio
quando illuminata mi sorprendi
e la dichiari ganascia di cinghiale!
Solenne la eleviamo a nostro totem,
trofeo di cacciatori di presagi.
Poco oltre indoviniamo infatti
il cranio fragile di un capriolo
cui soffia nel cavo delle orbite
una fresca buia terra di nessuno.
Sta su un mucchio di pietre a indicare
un incrocio fra destini (noi vivi lì
ed estranei, lui morto nel suo regno)
o un limpido segno di concerto
tra gli ingegneri muti del bosco –
– che gli si inchinino i suoi predatori.
Designato guardiano dell’esterno,
servirà a noi come scongiuro
sotterraneo esposto su un sarcofago,
gesto apotropaico, bucranio
in miniatura tra i festoni tesi
sugli spalti della mia e tua estate…
Cercheremo come un puzzle altri pezzi
di altre bestie, a formarne una chimera
una sfinge solo nostra da temere nella sera.
Rosa Pierno