Giovedì 15 Giugno 2023 – Su Via Lepsius Disappartenenza di Alessandro Bellasio

Su Via Lepsius Antonio Devicienti scrive di Alessandro Bellasio e del volume Disappartenenza. Letteratura e ascesi.

Disappartenere: su due libri di Alessandro Bellasio

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

       

         Sta prendendo forma una trilogia concepita e progettata da Alessandrio Bellasio e che si chiama “Trilogia dell’infrangibile” della quale sono stati finora pubblicati Monade (L’arcolaio, Forlimpopoli 2021) e Disappartenenza. Letteratura e ascesi (Fallone Editore, Taranto 2022); queste prime due fasi sono caratterizzate dal fatto di essere il primo un libro in versi, il secondo un saggio (che ha inaugurato la collana I labirinti concentrici pensata dall’Editore Fallone al fine di proporre libri di «critica letteraria e artistica ad ampio spettro») – ma l’interscambio concettuale, stilistico, artistico in senso ampio tra i due libri è tale che nutro una forte resistenza nel distinguere con nettezza due possibili “generi” di appartenenza per questi libri, benché, al tempo stesso, l’identità di ciascuno dei due permanga chiara dall’inizio alla fine della lettura. Trovo estremamente interessante che questi primi due appuntamenti con la trilogia bellasiana si offrano in forma (mi si perdoni l’espressione) di “poesia applicata” e di “poesia meditata” là dove ci si sarebbe potuti trovare di fronte o a due libri entrambi in versi o entrambi saggistici – è molto probabile, allora, che quella di Alessandro Bellasio sia un’originale e assai stimolante costruzione architettonica che, pur mancando ancora di quella che mi sia consentito immaginare come una “terza anta” del trittico, possiede già due “ante” capaci di sussistere sia indipendentemente l’una dall’altra, sia in interscambio continuo. 

          «Tratto caratteristico del nostro tempo, fra gli altri, sembrerebbe essere anche questo: chi dice poesia, chi dice letteratura o arte, oggi, deve giustificarsi. Perché tutto è così consunto, così abusato, così svuotato. Resti, avanzi, scorie: di questo noi viviamo, di queste cose si compone la sostanza del mondo – questo mondo così nostro, così non nostro, come le nostre vite. Non c’è quasi più nulla ; forse, non c’è mai stato quasi più nulla» (Disappartenenza, dalla Premessa di p. 11); «[…] // Discende, recando / ruggine e camion, / questo pomeriggio / di silicio e pena / sulla terra… È / il buio, questa sedia / senza spazio / che mi scruta nelle gambe / disperandomi creatura. / E voi, piccolissime / briciole del vero – capitelli / nuvole / profeti!» (MonadeIl fondamento piegato, p. 15) – nell’accostare questi due passaggi dai due libri desidero subito suggerire quel che intendo con “poesia applicata” (i versi brevi e brevissimi di Monade, il cui fondamento ritmico e concettuale è l’assai ricorrente e spesso determinante enjambement) e “poesia meditata” (quando la scrittura si distende in unità sintattiche e di pensiero più ampie, capaci di un convincente ritmo pendolare tra il saggio e la prosa d’arte, tra il rigore concettuale ed ermeneutico e lo slancio del sentire – si legga per esempio: «Vivo inchiodato a un sussurro, metà deuterio e metà pirite, la mia ananke è ciò che mi determina, mi accende, mi vivifica. Ogni ora è per me uno slargo epifanico, una stella nascente, radiosa e assoluta. Io sono la mente, il nervo e la sua nuda gemma, l’intuizione veglia appostata in me. Vivo di immagini, appartengo al presagio e al rapimento, alla loro gloria rovinosa e effimera. Traccio figure, sono l’anello fra specie e spirito. Faccio arte» DisappartenenzaCavie, p. 45).

          «Nell’era dell’indecidibile, siamo vivi o siamo morti? Nel tempo dell’indiscernibile, cosa distingue l’essere vivi dall’essere morti?» (Disappartenenza, L’Ade, p. 17) chiede Bellasio riflettendo sullo Zarathustra di Nietzsche: «[…] lungo il suo cammino Zarathustra sembra a tutti gli effetti passare in rassegna una sterminata teoria di cadaveri, anzi di finti cadaveri […], di morti-in-vita che fanno tanto somigliare a una catabasi, a un descensus ad inferos la discesa di Zarathustra dalla sua montagna – lui solo vivente, insieme ai suoi animali, in un mondo di semivivi, di replicanti. L’Ade, l’antimondo, l‘immondo è proprio questo luogo di indifferenziazione brutale, questa fabbrica di zombie, questo magazzino di morti viventi, di cloni: tutti uguali» (ibidem) e leggiamo in Monade:

«LITIO
Un luogo azzerato è l'ora
dove abbiamo respirato cenere, la
polvere, finissima,
di queste esalazioni
tra cui vivremo piano e cancellati... Avvolti
nella strana calma 
di un sussulto, dove le sostanze
agiscono radiali, diventano sentenza
dipinta e improvvisa
nello stridio di noi: ecco,
da un alto giorno, venirci incontro
i nostri sensi
inginocchiàti, dentro il niente, 
nei patriarchi – qui,
riversi sui giornali
dove capiamo a stento il nostro esistere,
l'interludio, perenne,
di notizie e scorie
che vi crivellano civili
con i kalashnikov, gli F16»
(p. 36)

          Sono versi che vanno commentati in almeno due direzioni: da una parte è scritto in Disappartenenza (Cavie, p. 44): «Più a fondo, più fatalmente di dolore e piacere ci marchia l’Unheimlich, l’elemento arcaico, la volta stellata, l’intarsio di litio. Esso non conforta e non migliora, non lenisce e non educa, ma compie un lavoro più sottile: modifica. Arresta il tempo e annulla gli spazi», dall’altra in Monade gli accadimenti non vengono mai identificati in maniera precisa e univoca, ma viene applicato quanto si può leggere in altre pagine di Disappartenenza animate da una forte e non immotivata vis polemica nei confronti di un malinteso realismo e di una “americanizzazione” della letteratura (italiana, ma non solo) quando Bellasio (p. 23) si scaglia contro «Una “letteratura” sempre meno vincolata al nucleo simbolico-universale dell’esistenza, e contraddistinta invece da una spiccata inclinazione alla presa diretta, idiosincratica e al contempo standardizzata, del mondo – sorretta da una passione morbosa per l’ “attualità” e per i suoi grandi temi, sempre più smaccatamente mimetica del cronachismo funzionale e parossistico dei media, del giornalismo (ma nel senso deteriore, massificato e mercificato, del termine) sostituito alla letteratura» concepita quest’ultima come «scrivere inteso in senso enfatico, come attività primariamente ed elettivamente artistica» (DisappartenenzaIn nome della realtà, p. 24) – ed ecco che versi come i seguenti

«Inginocchiàti, sotto un lucernario 
altissimo, e spinti 
per sempre al suo cospetto 
in frantumi sul creato, 
gli alberi, la neve, 
le rondini... i poeti, 
porta fra i mondi» 
(Monade, Diamante, p. 41) 

appaiono intesi a opporsi a «un limpido, sinistro hic et nunc integrale, inospitale e perfettamente vivibile, standardizzato e residuale, miniaturizzato e desertico, tecnicizzato da cima a fondo e inesorabilmente mortifero» (DisappartenenzaIn nome della realtà, p. 25) ché la scrittura di Alessandro Bellasio vuol risiedere «in quel fondamentale gap di distanza dal proprio tempo che […] è ciò che caratterizza il vero essere contemporanei» (Disappartenenzaibidem, p. 26). Si conferma allora proficuo leggere i due libri non solo in parallelo e in continuo dialogo tra di loro, ma anche aprendovi continui canali di comunicazione con autori come Agamen, Baudrillard, Blanchot, Caillois, Calasso, Colli, Heidegger, Houellebeck, Virilio e tanti altri (si veda anche soltanto la ricca, significativa bibliografia che chiude Disappartenenza); se è vero che “contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo” secondo la celeberrima definizione agambeniana (e mi pare di scorgere una forte presenza del pensiero di Giorgio Agamben nel lavoro di Alessandro Bellasio, specialmente quando la più ardita speculazione filosofica è nutrita da una vibrante ed energica presenza dell’esperienza personale – e penso, in questo momento, a libri come Il tempo del pensiero. I seminari di Le Thor con Heidegger (1966 e 1968), Quando la casa brucia, Quel che ho visto, udito, appreso, ma anche, naturalmente, all’Uomo senza contenuto e via enumerando), ebbene Bellasio attraversa con i suoi libri la tenebra, «il buio dove / è tempo finale è / tempo arrivato» (MonadeCorolla, p. 42), affidandosi ad artisti da lui studiati e profondamente compresi (Gottfried Benn e gli altri grandi espressionisti tedeschi, per esempio) cerca un’arte adiabatica la quale «vorrebbe alludere non tanto a una chiusura, d’altronde impensabile, rispetto agli eventi del mondo, bensì a quello che […] potremmo chiamare primato del momento autopoietico rispetto a quello adattivo» (DisappartenenzaArte adiabatica. La linea di faglia tra bios e pneuma, p. 29), vale a dire che l’arte è irriducibile all’esistere biologico, non dovrebbe “scambiare calore” con l’esterno, sostiene Bellasio, e «Cieli / purissimi, quasi / un incidente, ma avvenuto dentro / di sé – un / grido / pensante / che torna ricongiunto al proprio tuorlo, / lo asciuga» (MonadePleiade, p. 27) potrebbe essere una definizione probabile di tale status in quanto, talvolta citando esplicitamente per esempio la verklärte Nacht schönberghiana o il verso di Mariella Mehr ciascuno incatenato alla sua ora (Monade rispettivamente p. 30 e p. 34), talaltra in maniera criptica (ma lo stesso accade in alcune pagine di Cavie nelle quali gli indizi portano il lettore a intuire che si stia parlando, per esempio, di Dino Campana oppure i nomi vengono esplicitati: Emilio Vedova, Alberto Burri, Alban Berg, ancora Schönberg) Bellasio dissemina i propri versi delle medesime presenze che animano Disappartenenza – libro quest’ultimo che non esito a definire anche una sua lucidissima dichiarazione di poetica e tra le rare che è stato dato di leggere negli anni recenti – – – e l’eterno ritorno dell’uguale, i lancinanti assunti celaniani, le abissali ascese concettuali e verbali che ricordano la poesia di Andrea Leone e altro ancora innervano Monade che, fin dal titolo, pone innanzi a un itinerario lungo e complesso capace di attraversare le filosofie e le poetiche avvicendatesi fino a oggi: la monadologia di Bellasio è costruzione, verso dopo verso, di un edificio il cui significato giace nel suo stesso venire a esistenza, nel suo puntiglioso volersi porre come disappartenente alle mode, ai vezzi, agli equivoci, alle svalutazioni che sottraggono all’arte le sue molteplici dimensioni per farne un prodotto di mercato e per il mercato, unidimensionale merce per morti viventi.

          Convinto che «un poeta non ha mai in prima istanza il compito di comunicare, bensì di dire, di nominare esattamente» (DisappartenenzaMetafisica e pronomi, p. 32), scrive Bellasio in chiusura di Monade (Il laccio antartico, p. 64): «Mi so, da sempre, / destinato a scendere, nitidamente, / nel verdetto di un alto milligrammo. Io, / che ho ubbidito – io che solo / sono entrato / nell’indelebile» perché «Si fa arte a prescindere da tutto, da tutti. Si fa arte da soli. // Fare arte: recare in sé i propri vettori e motivi e portarli a scintillare, a deflagrare. In sé: il mondo è dato, ma come incubatrice» (DisappartenenzaTragico claustrale, p. 39) e non a caso la parte centrale di Monade si chiama proprio Incubatrice e, tra i molti che mi piacerebbe citare, propongo questi versi per la loro stupefacente bellezza e pregnanza:

«Gli occhi, talvolta, hanno mani,
entrano nei faggi
radunandone i magneti
mappano
la struttura del vento»
(Nell'ambra, p. 30)

e potrei pensare a quanto sia ricorrente il Leitmotiv dell’occhio nella poesia (anch’essa determinante per Alessandro Bellasio) celaniana, occhio/sguardo/visione connessi anche alla mano, al fatto che faggio in tedesco si dica Buche e che la Buchovina è terra d’origine di Celan, potrei anche azzardare che i “magneti” richiamano i meridiani che uniscono i due poli magnetici della terra e Der Meridian è il discorso di Darmstadt (fondamentale dichiarazione di poetica da parte di Celan) e che spesso la poesia celaniana è una “mappatura” di luoghi e di tempi, di direzioni dello sguardo e del linguaggio – voglio cioè ribadire che in entrambi i libri di Alessandro Bellasio esiste un’intima connessione con autori di riferimento, un legame davvero forte con una certa tradizione filosofica (i Presocratici, Platone e poi Nietzsche, Heidegger), con una certa temperie poetica tendenzialmente di lingua e cultura tedesca (i Romantici di Jena, Hölderlin, gli Espressionisti, appunto, fino al binomio Celan-Bachmann), con almeno due artisti di lingua italiana (Andrea Leone e Lorenzo Chiuchiù centrali nello scritto L’integro, l’ascetico. Due figure del contemporaneo sulle quali si tornerà).

          Se infatti leggiamo

«Hanno mandato agenti a rovistare nel mio cervello.
Vi siete, da sempre, 
ostinati voi 
a riabilitarmi, mentre
io stanavo furiosamente in me 
i crismi di una fine pura, intatta»
(Monade, Il laccio antartico, p. 58) 

si potrebbe riandare con la memoria ancora ai versi celaniani «RESIDUI AUDITIVI, VISIVI, nel / dormitorio mille e uno, / ogni notte / la Polca dell’Orso: / ti rieducano, / di nuovo sarai / lui» (la traduzione è di Luigi Reitani, il testo apre la prima sezione e quindi l’intero impianto di Lichtzwang / Fotocostrizione), ma anche al Kleist, allo Hohenstaufen, al Ludwig di Andrea Leone, al Viktor Semënov e agli “atleti del fuoco” di Lorenzo Chiuchiù (Nietzsche, Baudelaire, Camus, Hölderlin, Quinzio, De Angelis), voci tutte queste ultime che risuonano nello scritto cui si accennava (L’integro, l’ascetico) e che significativamente occupa anche il centro “fisico” del libro – 9 scritti lo precedono, 8 lo seguono, esso stesso ha forma di dittico con un preludio: Alessandro Bellasio conosce bene anche l’importanza delle simmetrie e delle corrispondenze tra le parti, l’eleganza nella strutturazione dei testi e dei libri è uno dei molti modi da lui adottati per opporsi all’«aria inodore, la stoffa incolore di una parola esangue, vicaria e sicaria (della letteratura e della qualità eminentemente artistica dlela lingua e dell’esperienza che la mobilita […] una visione del mondo avvilente e ingrigita – un mondo che, in verità, mai fu, è o sarà soltanto un (unico, univoco) mondo, ma anche e soprattutto un campo di forze, un dominio di potenze con cui un giorno intrattenemmo scambi pericolosi, ma vitali, prima di sostituirgli la vacuità spettrale e anestetica, l’angustia greve e obnubilante della mera “attualità”» (DisappartenenzaIn nome della realtà, p. 26).

          A proposito di Andrea Leone si legge tra l’altro: «[…] la sola forma di speranza risiede nella lucidità ferrea e intransigente (ma mai fortuita e anzi lungamente preparata, e strenuamente guadagnata) di qualche individuo isolato» (DisappartenenzaL’integro, l’ascetico, p. 57) e di Lorenzo Chiuchiù: «[…] l’ascesi, ovvero l’esercizio in questione, come vuole effettivamente il suo etimo, indicherà […] quell’attività eminente dello spirito che sola è in grado di condurlo alla vigilanza e alla massima espressione vitale – peculiare attività “atletica” (non certo nell’accezione odierna dello sport) dove l’organo che si va a rinvigorire è quello interiore» (ibidem, p. 63).

         Avevo già riportato i versi con cui si conclude Monade; ebbene, essi sono preceduti da questi altri e, insieme ai molti altri che a loro volta precedono, costituiscono un vero e proprio poemetto (Il laccio antartico cui appartengono anche i versi di p. 58 già citati) nel quale l’io lirico riafferma la propria lotta contro una sorta di condizione clinico-ospedaliera che vorrebbe costringerlo a una non-vita controllata, condizionata, umiliata e proprio questa tensione ascetica (e agonica) finalizzata a preservare la propria integrità d’individuo senziente e pensante può fare da controcanto alle pagine dedicate a Leone e a Chiuchiù:

«Sono, di me,
le mie poche braccia
decretate, queste vene
che mi sono arato 
con pazienza – qualcosa
avvenuto in disparte, che si potrà dimenticare...
Ciarpame
vagamente diseducativo
di voi, ho
spento io
con le mie mani questa morte
potentemente scoperchiata in me, 
attinta a lungo
nel limpido preludio delle dosi»
(p. 64);

          si legge infatti nel medesimo testo in versi:

«Ho varcato a modo mio
le soglie perentorie dell'ascesi.

Anacoreta
delle panchine, stilita
di infiniti pomeriggi
conficcati qui, tra i condomìni
sfigurati dal grigiore
di un esistere qualunque»
(Monade, pp. 61 e 62)

e se ascesi vale appunto, etimologicamente, “esercizio”, ebbene in Disappartenenza questo viene riaffermato a chiare lettere, avendo cura di liberare il termine da ogni implicazione (o incrostazione) religiosa o spiritualistica; nello stesso modo anacoreta e stilita va ricondotto entro la concezione che Bellasio possiede di chi è inteso a vivere una vita autentica (per dirla in termini heideggeriani), la scrittura in poesia (così come quella saggistica) è, oltre che atto artistico, espressione di piena consapevolezza cui non si rinuncia. E fra le molte spie linguistiche che uniscono i due libri ecco cavia (« È davvero in me che termino, benedetto forte / da un cristo di grigiore, da un vangelo / di rabberci e toppe, / che non potrà più parlarmi… Cavia / al cospetto di quest’occhio / psichiatrico / che sento calare col suo fato su di me… / […] / Non ho / rimpianto, non conosco / elegia. Io, che ho visto il vero / vuoto in queste cose, il cuore nero / di ogni ora, / con la mia vita / l’ho colpito, ci sono andato» p. 61) – Cavie, ricordo, è intitolato il nono scritto di Disappartenenza cui si è già più volte accennato, cavie in grado di captare i segnali che provengono dalle cose, di orientarsi verso il primitivo e l’originario, verso il fluire ininterrotto del vivere.

          Ed è questo «favorire il flusso bidirezionale che avvicenda uomini e animali/vegetali, vivi e morti, nel perpetuo ciclo di creazione e distruzione del mondo naturale – inteso però allora come un mondo non meramente naturale…» (DisappartenenzaLo scrigno, p. 67) il ruolo dello sciamano (e del mito orfico) di cui Bellasio discute nello scritto; sia però del tutto chiaro che in nessun luogo del libro l’autore cede a equivoci o tentazioni o suggestioni di carattere irrazionalistico, misticheggiante o spiritualistico, dal momento che le sue argomentazioni sono sempre sorrette da approfondite conoscenze filosofiche, storiche, antropologiche, persino paleontologiche dato che nello scritto Göbekli Tepe si medita sulla possibile necessità di ripensare tutta la cronologia relativa all’origine delle culture umane («L’intera storia del genere homo da riscrivere, a partire non dall’utensile ma dall’evento panico, non dall’aggregazione comunitaria ma dalla partecipazione cosmica, non dalla segregazione nella Umwelt ma dal brivido dell’esserci» p. 83) e in Vita subcorticale si discute degli studi circa il cervello umano, le sue dimensioni, le correlazioni fra le sue diverse parti in rapporto all’evoluzione della specie e alle sue capacità di adattamento all’ambiente, anche in questo scritto ci si pone la questione dell’origine del pensiero simbolico e delle sensazioni, si contesta l’ideologia funzionalistica e tecnicistica imperante che, è convinto Bellasio, domina e condiziona anche il fare artistico distorcendolo e riducendolo a vana chiacchiera.

          Le riflessioni di Alessandro Bellasio si dispongono su uno spettro molto ampio affinché il fare poesia (arte) possa essere strappato all’unidimensionalità e alla banalizzazione, all’appiattimento sull’attualità e sul solo bios, esse insistono nell’attraversare profondità temporali e concettuali abissali, per cui in poesia è possibile leggere:

«[...]

Tremano le arcate
chiuse nella nuca, e tu
puoi ferirti puoi 
toccarle, gelandoti le dita
nel torso del temporale – sempre 
lo stesso, irredimibile,
affanno delle braccia
malate a morte, fuori
da noi o già freddate
da un colpo qualsiasi – decadi
di vero strappo
ma già profonde e divenute spia...
E torna, all'improvviso
torna, da oltre i vetri
del vero eterno
tutto un sibilo
lungo la creatura, mentre
i soffitti cedono e
anche le pareti, benché crepate, 
si sono fatte ruota, meditano: 
MORIRE
È LA COSA CHE HO IMPARATO A VARCARE»
(Monade, Corolla, pp. 42 e 43)

infatti «[…] il punto è che né la vita, né il corpo, sono mai scomponibili o riducibili alle loro funzioni e parti, se non a prezzo di una pericolosa astrazione» (DisappartenenzaVita subcorticale, p. 74) e che entrambi questi libri tentano di rintracciare il momento originario in cui ha cominciato a formarsi il pensiero simbolico – Monade reca a proprio esergo le parole di Gottfried Benn «In principio, i libri della Genesi, e poi l’istante in cui la vita si percepisce soltanto nel cervello»; ma sia Monade che Disappartenenza seguono anche lo scindersi di poesia e filosofia e il loro continuo cercarsi, il loro rinnovato tentativo di tornare a coincidere, quegli attimi folgoranti in cui intuizione e conoscenza avvengono contemporaneamente annullando il tempo meccanico e banausico; è questo uno dei molti motivi per cui la prosa di Disappartenenza sa illuminarsi spesso di uno stile immaginifico e visionario, vibrante e vibrato, mentre le concatenazioni di versi e di testi di Monade possono assumere l’andamento di (laiche) litanie, di cadenzate ascese nell’Abgrund del nostro essere gettati nel mondo – e scrivo a ragion veduta così perché, se da un lato Heidegger è sempre molto presente e lo scritto La casa dell’essere (terzultimo di Disappartenenza) ne suggella l’importanza quale punto di riferimento ineludibile per Bellasio e quale interlocutore privilegiato in età moderna di altri pensatori fondamentali (Eraclito, Parmenide, Platone), le antinomie, i paradossi, i rovesciamenti di senso appartengono alla speculazione dell’autore il quale, edotto da un altro irrinunciabile per lui qual è Nietzsche, formatosi sugli stupefacenti scavi linguistici e sulle collisioni del senso e delle immagini di Celan, addestratosi sulle visioni ultratemporali e sugli “smalti” di Benn, sulle vertiginose accensioni sapienziali di Eraclito (e potrei continuare), con rara lucidità ha dato vita a scritti che esplicano quanto, dicevo già all’inizio, egli “applica” in forma di verso, cioè d’arte.

          Per questo esiste una coerenza perfetta tra la polemica accesa che Alessandro Bellasio conduce nei confronti di una scienza (anche medica) che riduce l’individuo a solo meccanismo fisiologico e il poemetto Cieli clinici nel quale un io lirico di genere femminile con lancinante lucidità racconta quella che sembra una degenza ospedaliera durante la quale «Mi hanno / sollevata dal mio corpo, destituita – / sono stata, per sempre, / abrogata. Più / niente. / Colano, adesso, / liquidi / da una conduttura dentro me…» (Monade pp. 50 e 51) – non a caso la parte del libro cui appartengono e questo poemetto e l’altro già citato, Il laccio antartico, s’intitola INVASIONE proprio perché «una oramai sempre più consolidata scienza medica procedeva a grandi passi nell’inarrestabile anatomizzazione e parcellizzazione funzionalistica del corpo, che veniva così definitivamente ridotto a mero aggregato di organi la cui tenuta d’insieme era demandata alla regolarità prestabilita di processi di ordine essenzialmente chimico-metabolico, e nulla più» (Disappartenenza, Geistwende, pp. 101 e 102) – si potrebbe pensare a Serie ospedaliera di Amelia Rosselli, a Van Gogh il suicidato della società di Antonin Artaud, a Luogo del sigillo di Alfonso Guida…

          La tensione anche etica, non solo intellettuale e linguistica, che attraversa entrambi i libri consiste in questa ricerca della possibilità per la poesia (per l’arte) di non soggiacere all’unidimensionalità dell’attualità, di non ridursi a strumento comunicativo che abusa della parola deprivandola di senso e di significato. La Geistwende (titolo, appunto, dell’ultimo scritto di Disappartenenza) oltre che descrivere la svolta radicale accaduta tra XIX e XX secolo sotto la spinta della fisica quantistica, della psicoanalisi, delle filosofie della crisi e che nell’ambito artistico approda alla «stagione dell’espressionismo» (Disappartenenzaibidem, p. 105), prende forma di una domanda che chiude l’intero libro: «è mai venuto meno il “mondo nichilistico” dove solo esprimere significa esistere o, ancora, ha l’espressione come “situazione fondamentale e senso complessivo dell’esistenza dell’uomo europeo” mai realmente smesso, al di là di tutte le deviazioni possibili, di additare la direzione unitaria del nostro sterminato errare» (ibidem) – “chiude” è, però, un modo di dire, ché il quesito apre e avvia senz’alcun dubbio al terzo libro della trilogia e, in ogni caso, anch’esso rimanda a Monade, opera nella quale ha luogo, in poesia, l’arduo tentativo di andare oltre l’espressionismo, di accedere a dimensioni perdute:

«...poi, ci tolsero le lampade.
Lo scantinato
entrò nel buio, colpendomi.
“Ho visto le mie braccia gelare 
a una a una, a tre a tre - 
sparire con i candelotti
nelle notti di cemento armato”.
Qui, sfigurato ottobre»
(Monade, Zenit, p. 34). 

          Lo “sfigurato ottobre” (che potrebbe suggerire il nome di Trakl) pretende una “ri-figurazione” del vivere e del fare arte, la “disappartenenza” è una precisa postura che non accetta l’uomo «Appiattito su di sé e senza aperture prospettiche, privo di esteriorizzazione e di simbolizzazione, senza altro e senza altrove» (DisappartenenzaL’Ade, p. 14); pur da lui non esplicitati, mi prendo la libertà di aggiungere altri nomi alla già ampia rosa di Bellasio (Aby Warburg, Walter Benjamin, Giacomo Leopardi…) intendendo dire che gli sguardi più penetranti di dopo (o anche poco prima) la Geistwende coltivano anche loro questa volontà di non interpretare l’esistere umano soltanto in chiave utilitaristica e di adattabilità all’ambiente, anche loro disappartengono al proprio presente, monadi di lucidissima coscienza, per le quali la poesia (l’arte) «concerne sempre e solo la singolarità assoluta, l’irreversibilità del destino, l’insolubilità dell’esistenza: lì sono il suo senso e il suo valore, in quella micrografia dell’universale che è il singolare e che, come tale, trascende per sempre ogni individuo (biografico), società (storiografica), corte o epoca (museografiche)» (Medicamenta, p. 37); è nella frattura insanabile tra uomo e mondo (Tragico claustrale, p. 39) che Alessandro Bellasio vede la scaturigine del pensiero poetante, il tragico farsi dell’arte. Lungi dall’affermare il valore assoluto e inattingibile della poesia (anzi, della Poesia), lontanissimo dal sacralizzarla in contrapposizione a un presente che (stigmatizzano in molti) ignora la poesia quando non la dileggia, Alessandro Bellasio concepisce due libri che si propongono come due possibili itinerari di scrittura la quale mai nasconde le proprie ambizioni d’arte. Senza dubbio il terzo confermerà l’idea di un’ “infrangibilità” intesa come quel nucleo che, malgrado mode e crisi epocali, resiste perché qualificante di quanto è umano, vivo, pulsante di pensiero.

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