La parabola del nazionalismo italiano nell’ultimo libro di Parlato
di Alessandro Della Casa
– In “La Nazione dei nazionalisti. Liberalismo, conservatorismo, fascismo” (Fallone Editore, 2020), Giuseppe Parlato racconta la storia del nazionalismo italiano dagli albori fino alla caduta del fascismo.
Composti tra il 1983 e il 2020, i sette saggi di Giuseppe Parlato raccolti in La Nazione dei nazionalisti. Liberalismo, conservatorismo, fascismo (Fallone Editore, 2020) approfondiscono assai utilmente la parabola di quello che Gioacchino Volpe definì il “vario nazionalismo italiano”, dagli albori letterari, con la nascita a ridosso della sconfitta di Adua della rivista fiorentina «Il Marzocco», che ebbe redattore Enrico Corradini, futuro leader dell’Associazione nazionalista italiana (Ani), fino alle riflessioni di coloro che ne erano stati tra i principali esponenti sui rapporti con il fascismo da poco caduto.
Al di là delle profonde divergenze (al contempo dottrinali, culturali e geografiche) da cui furono caratterizzati i primi anni di vita dell’Ani – che, dopo la fondazione nel 1910, vide in rapida successione la significativa fuoriuscita del sociologo irredentista Scipio Sighele e poi dei democratici (tra questi, Paolo Arcari, emblema della influsso delle idee nazionaliste negli ambienti cattolici) e dei liberali, mentre andavano prevalendo le posizioni imperialiste e antidemocratiche del gruppo riunito attorno al periodico capitolino «L’Idea Nazionale» –, Parlato rileva la concordanza di fondo riguardo ai modi di concretizzare la primazia assiologica della nazione. Essi convenivano in buon numero sulla “necessità di allargare l’idea liberale di nazione”, giudicata preda del parlamentarismo e incapace, per il suo impianto individualistico, di ingenerare una piena “coscienza nazionale” e, pertanto, di raccogliere e far fruttare l’eredità del Risorgimento. E la strategia per realizzare tale obiettivo fu attuata tentando di fornire una “rivisitazione in senso nazionale della modernità politica”.
Sotto questa luce si spiegano l’attenzione che Corradini rivolse al sindacalismo rivoluzionario e la sua teorizzazione di un “sindacalismo della nazione” (da cui, poi, il sindacalismo nazionale). In tal modo si comprende, inoltre, l’abilità nel coinvolgimento dell’opinione pubblica che, nella convinzione del primato del politico sull’economico e della politica estera sulla politica interna, fu già dimostrata nel propiziare la guerra espansionistica in Libia, di cui i nazionalisti si intestarono pienamente il merito.
Fu in quella “grande occasione” – la quale, lungi dal prosciugarne il ruolo, amplificò il loro peso sulla scena politica – che la propaganda nazionalista introdusse gli argomenti retorici del “nemico interno” e dell’antitesi radicale tra “due Italie” (quella autentica, interventista, e quella neutralista, “decisamente meno nazionale dell’altra”) che da altri vennero reimpiegati nel primo dopoguerra – basti pensare a Giovanni Gentile –, e avrebbero continuato a godere di buona fortuna anche in epoca repubblicana.
Punti nodali, ma non finali, della ricostruzione storiografica proposta da Parlato sono evidentemente quelli del progressivo avvicinamento al fascismo e della fusione avvenuta nel 1923. Condivisibilmente, Parlato rifiuta la tesi del nazionalfascismo, inaugurata da Luigi Salvatorelli e in parte fatta propria dagli stessi nazionalisti, secondo cui la convergenza con il movimento mussoliniano era stata l’approdo inevitabile del nazionalismo, che aveva però egemonizzato culturalmente il fascismo.
Difatti, consci dell’incapacità di trasformarsi in un partito di massa, i nazionalisti tra il 1920 e il 1921 avevano tentato tatticamente di aprire un dialogo con i popolari, per deviare successivamente sulla costruzione di un “partito conservatore” e presentarsi in ultimo, alle elezioni del 1921, nei Blocchi nazionali, testimonianza, per Alfredo Rocco, del processo di nazionalizzazione che l’Ani era riuscita a imporre alle componenti fasciste e liberali. Sul versante ideologico, però, il momento prodromico all’instaurazione del rapporto con il fascismo è individuato nella prospettiva corporativistica esposta – non senza provocare tensioni interne – dal futuro guardasigilli di Mussolini al convegno romano dell’Ani nel 1919.
Temendo che la conclusione del conflitto mondiale avrebbe portato a esaurimento la funzione dell’associazione, Rocco aveva spostato “i termini del pensiero nazionalista oltre il generico patriottismo puntando alla costruzione del nuovo Stato”.
“I nazionalisti”, spiega Parlato, “diedero al fascismo indubbi supporti, anche in momenti difficili. Federzoni ritrovò anche qualcosa di più del semplice autoritarismo avallando e gestendo le ‘leggi fascistissime’ da ministro dell’Interno; Rocco costruì il modello sociale del regime, inserendo i sindacati nello Stato e pensando a un corporativismo autoritario e conservatore”, oltre a fornirne l’impianto giuridico. Sarebbe stato proprio quell’“atteggiamento costantemente solidale”, almeno sul piano pubblico, a dover essere giustificato al crollo del fascismo.
La linea difensiva scelta da chi, come Luigi Federzoni, più a lungo tra i nazionalisti aveva ricoperto incarichi di rilievo, salvo essere tra i firmatari della sfiducia a Mussolini, fu che l’ininterrotta partecipazione al governo aveva inteso fornire una difesa della legalità statutaria e delle prerogative della Corona, cercando di limitare le “velleità totalitarie” del regime e di un duce preda, dopo il primo decennio dalla marcia su Roma, di una personale “degenerazione morale”, cedevole alle “pulsioni rivoluzionarie della sinistra fascista”.
Si trattò di perplessità che Parlato ritrova anche nelle esperienze dell’accademico Vittorio Cian e del presidente dell’Associazione mutilati e invalidi, Carlo Delcroix – ripercorse nel volume avvalendosi di vasta documentazione inedita, conservata anche presso l’archivio della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice –, prevalentemente manifestate “ex post e con toni spesso autoassolutori” e, del resto, senza alcun effetto agli occhi della “nuova classe dirigente”.