Giovedì 2 Marzo 2023 – Il Golem di June Scialpi su Via Lepsius

Su Via Lepsius Il Golem di June Scialpi nella magnifica analisi di Antonio Devicienti:

 

Il Golem di June Scialpi

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

 

        Ha proprio ragione Antonio Francesco Perozzi quando scrive: «Il secondo libro di Scialpi si muove […] nella necessità di ripensare il rapporto che si ha con se stessi e con l’altro, di entrare in conflitto con modelli ereditati e non più indossabili […] Il Golem è del resto una vera e propria reinterpretazione del mito ebraico: se la cabala parla di un gigante d’argilla al servizio dell’uomo, qui Scialpi ne fa, sì, qualcosa di plasmabile, ma anche di interiore […] Una dimensione fonda, da sondare e interrogare […], ma anche – più generalmente – quel non rappresentato, quel socialmente / psicologicamente represso, che chiede adesso, storicamente, di venire alla luce. […] Da questo posizionarsi dalla parte del taciuto e dell’emarginato si osserva già la dimensione politica del libro, che si intreccia però con quella linguistica ed estetica». Sono questi alcuni stralci dalla Prefazione. Altre mitopoiesi. Sul Golem di Scialpi (pp. I e II) al libro in poesia IL GOLEM. L’interruzione di June Scialpi (Fallone Editore, Taranto 2022), opera di folgorante consapevolezza e maturità, totalmente svincolata dall’atteggiamento narcisistico ed esibizionista che insozza molti libri di questi anni – ma June Scialpi non merita che questo mio attraversamento cominci con un tono polemico (probabilmente sterile e fine a sé stesso), sì, invece, con la sua scrittura stessa, esemplare per molteplici ragioni: 

ci riallaccio alla veglia da un crampo al polpaccio;
ciò che abbiamo visto voi non lo sapete ma aveva 
occhi e respirava aveva buio e passi in penombra 
per fare paura aveva il peggio: la faccia mortifera
di chi non conosce maniera

da tempo la strada ha una quiete mortuaria, il suo
pomeriggio ha silenzi imposti (pensa alle tazzine 
appese al gancio una accanto all'altra, al vuoto
sottostante, al lavandino che perde: non lo trova
un senso) non conosce altro modo
(p. 21) 

        Sempre Perozzi scrive «Il soggetto non è definitivo, assistiamo a continui slittamenti pronominali […] e i versi appaiono gettati nella lotta tra un’energia frammentante e una agglutinante» (pp. II e III) – infatti il consueto (o l’atteso) “mi riallaccio” ha, invece, un pronome riflessivo apparentemente incongruo, ma l’esplicita coniugazione verbale alla prima persona plurale del secondo verso chiarisce il dato linguistico ed è proprio nella sulla lingua (che è sintassi e lessico, connotazione e denotazione, portato culturale, storico, politico e sociale) che agisce la capacità di June Scialpi nel plasmare (è veramente questo il verbo più adatto) l’argilla della nominazione e della rappresentazione, della percezione di sé e del mondo, del rapporto tra il sé e il mondo. Scialpi interviene e agisce già sugli elementi grammaticali di base, ha il coraggio e la coerenza di contestare e di ripensare la grammatica stessa nei suoi due fondamenti: genere e numero. Un libro come questo ha bisogno di liberarsi da vincoli e da convenzioni linguistiche (che sono anche storiche, culturali, sociali, politiche) per potere dispiegare il proprio potenziale d’innovazione e di rovesciamento radicale di tutto il portato oppressivo, patriarcale, maschilista che impronta e condiziona la lingua stessa e, di conseguenza, la verbalizzazione degli accadimenti, condizionata e distorta proprio da tali elementi liberticidi e mortiferi.

        Quello che è tema e oggetto del libro «non conosce maniera» proprio nel senso che tutto dev’essere ri-fondato e ri-espresso perché tutto finalmente sfugge a codici precostituiti, sclerotizzati e autoritari, ogni cosa (fossero anche le tazzine e un banale lavandino) si sporge sull’orlo di un abisso che ha già inghiottito il senso – ma una tale situazione che può apparire minacciosa, angosciante e nichilista si rovescia, invece, nel necessario ripensamento di ogni parametro e in un processo liberatorio:

(la sua esercitata forma a rimanere incastro)

da un giorno all'altro
così: l'ho trovato rientrando
lì nell'angolo impostato
appostato nel suo spazio così
monumentale;

(lo sta facendo ancora: si
costruisce mentre si pensa
da solo, ne ha bisogno 
perché si aggiorna perché
ha bisogno di farsi nuovo)

mai mosso mai creato
fingersi di me opera è il suo scopo
fingersi scopo e significato.

Ecco il colosso
(p. 22) 

        Spero sia inutile spiegare che “fingersi” vuol dire “rappresentarsi” e che l’attuarsi della scrittura è, qui, processo e movimento a doppio senso (dall’io al Golem e viceversa, cioè dal pensiero alla materia od oggetto del pensiero e ritorno, in continuo interscambio, in incessante reiterazione, là dove il dualismo è, in realtà, accorgimento retorico per rappresentare, appunto, un processo unitario e in continuo divenire, ma che il linguaggio, per sua strutturazione storico-culturale, non può che esprimere in termini dualistici: il Golem di Scialpi costituisce, allora, la presa di coscienza di una tale situazione conoscitiva e linguistica, muove da tali risultanze in avanti per provare a superarle – da qui le frequenti immagini del graffiarsi, del cadere, del rompersi che ben esprimono un moto nel suo farsi non privo di rischi e, appunto, di cadute).

di tutte le luci che ha messo
a illuminare ogni camera
le ultime sono migliori: 
fanno un gioco prospettico
sembrano enorme la stanza

(ci guarda
e di getto
gli si spalanca la faccia)

a peso vivo 
cadendo steso 
lascia una voragine
a forma di corpo: 
un buco intagliato perfetto
(p. 25)

sentiamo quel tonfo, un limine al rintraccio
l’oggetto da scompendio; il Golem illustra col
rumore il suo pensiero:

(si è graffiato la guancia cadendo facciatterra:
più accarezzo e più si squaglia (ci disfai
con questo gesto)
(p. 26)

        Dal “sembrano” impiegato transitivamente alla complessa dialettica pronominale continua a disegnarsi la necessaria riscrittura di grammatica e sintassi –

        – e non trascurerei quella che mi piace chiamare la “tessitura” delle citazioni-esergo che, tra l’altro, hanno l’interessante particolarità di provenire da campi artistici spesso ignorati (quando non disprezzati) da gran parte del paludato mondo “poetico” italiano e che June Scialpi inserisce come suggerimenti interpretativi affinché il suo Golem prenda forma e si muova da testo a testo, ma Il Golem è una concatenazione di testi che fanno i conti con la necessità di dover percepire (e quindi rappresentare) il reale secondo modalità e parametri cognitivi e metacognitivi totalmente nuovi perché si sta approdando finalmente alla critica serrata e al superamento delle polarità di marca aristotelica (ma anche giudaico-cristiana) tra maschio e femmina, tra uomo e animale, tra organico e inorganico, tra interno ed esterno e via enumerando; mi sembra che un libro come questo metta in crisi proprio le dicotomie assolute e assolutizzate, pericolosamente e violentemente autoritarie – Today is the last day I’m using words / They’ve gone out, lost their meaning / Don’t function anymore MADONNA, Bedtime story (esergo alla prima parte Il Segno del Senso); I’m facing the greatest / The greatest loss of them all / The culture is lit and I had a ball / I guess that I’m burned out after all / If this is it, I’m signing off / Miss doing nothin’ the most of all LANA DEL REY, The greatest What a mistake I made / I believed your words چه اشتباهی کردم / حرفاتو باور کردم SEVDALIZA, Gole Bi Goldoon (esergo alla seconda parte Ambientato al buio); Show me forgiveness / For having lost faith in myself / And let my own interior up / To inferior forces / The shame is endless BJÖRK, Show me forgiveness Grendel, Grendel! / Tu crei il mondo sussurrando attimo per attimo. / Non te ne avvedi? E non importa se ne fai una tomba / o un giardino di rose JOHN GARDNER, L’orco (esergo alla terza parte Primo fottuto Carnera! (una biografia)); […] / You stand before me now, unchanged. // (For this is the way it has to be; / To perceive you is an act of faith / Though it is you who have inherited me) GWENDOLYN MacEWEN, The return Here now. / Safe on the other side and here. // (A long silence) // Always be here. / Thank you, Doctor SARAH KANE, Cleansed (esergo all’ultima parte lingua dominii) – affiora così dal mondo della musica, del teatro e della letteratura internazionali (non credo sia casuale l’assenza di riferimento ad autori/autrici italiani/e tranne una sola citazione di cui scriverò in chiusura di questo mio intervento) una spinta da tempo attiva a ripensare criticamente i parametri tradizionali (e imposti) dell’identità personale, a confrontarsi senza infingimenti anche con le regioni infere che albergano nell’individuo e nelle comunità cui egli appartiene. Gli studi queer e sul transfemminismo che June Scialpi conduce da tempo trovano qui un’espressione in poesia capace di indicare un modo efficace per uscire dalle secche del lirismo e del narcisismo autoriale: una tale tessitura di riferimenti extratestuali dà infatti ragione della tessitura poematica del Golem e ne spiega le premesse storiche, culturali, sociali, politiche le quali trovano puntuale epressione nei testi come per esempio: «(per noi pensare è la capacità di attribuire un valore / rappresentativo alla realtà) // […] // noi siamo quel Golem / l’assenza incatenata, la / cosa dimenticata e / mai ricordata» (p. 28) e poco oltre: «[al cronogiornale planetario solo notizie / da altri pianeti; carrellate di calcio, crimini / e bambini morti sotto grotte: la stagione / dei monsoni lavici // cerco la notizia che va per la maggiore: / solo maschi maschili, femmine femminili / cani canini; un umore appresta la cronaca / nello stragrigio]» (p. 30) e ancora: «intanto avanza il Golem che eravamo / sullo scarto cessato dei fuochi sui giochi / sui martìri – nel cedimento dei sospiri / avanza declassato (e forse all’alba è / la struttura di un linguaggio che ci da / la caccia) che ci piega a farci forzature: // (siamo fuori dalla sacra conversazione / fuori dalla storia della vera croce; una / bocca ci fa sacri in un giro di parole) // a terminare ciò che inizia: saper usare / le parole» (p. 36).

        «[…] non resta che / decidere: mi fai di contingenza o mi rinchiudi / al referente che mi indica. // resta di affidarci al senso del segno» (p. 37) dal momento che ogni gesto, pensiero, ricordo, ogni atto percettivo e reattivo del Golem si rende visibile nel linguaggio e nei suoi segni anche perché, siccome Scialpi non dimentica neanche il legame con la leggenda ebraica, il Golem e la sua esistenza in vita sono legati alla parola, nel caso specifico emeth (verità in ebraico) perché, narra la leggenda, cancellando la prima vocale si ottiene la parola meth (morte) e la morte del Golem stesso; segnalerei inoltre che nel libro di Paul Celan La rosa di nessuno si può leggere un testo (Einem, der vor der Tür stand – A uno che stava davanti alla porta) nel quale, attraverso le figure di Rabbi Löw e del Golem da lui creato, si affronta il tema del linguaggio in rapporto alla dicibilità (o meno) del reale e della storia dopo la Shoah; il Golem è creatura sospesa tra l’umano e la materia argillosa di cui è fatto, la sua identità determinata dal segno grafico (la parola, anch’essa plasmabile) che reca sulla fronte. E, come Celan, anche June Scialpi nega al linguaggio ogni valore metafisico e trascendente, ma lo àncora all’immanenza del vivere e del pensare e, attraverso di questi, alla necessità di ridefinire continuamente l’identità la quale si trova sempre nelle strettoie (termine anche questo celaniano) del linguaggio, tra le simplegadi del significante e del significato, della denotazione e della connotazione, della nominazione e della de-nominazione e intendo dire che, anche in questo caso con esemplare coerenza, Scialpi mette in atto gli strumenti della de-costruzione affinché sia resa possibile una ri-costruzione su nuove basi.

gli racconta una storia come ninnananna
[gli racconta com'era prima il mondo]

(pensa alle cose come
vederle la prima volta)

lui non capisce (o forse solo ora ci prova)
ma tace. aspetta gli si dica solo cosa fare
(p. 46)

        È anche molto interessante soffermarsi sulla versificazione di June Scialpi in questo libro: non si tratta in alcun modo di verslibrisme, ma di una forma tipografica necessitata dalla e intimamente connessa alla poematicità e alla tematica del Golem; e se dovessi cercare esempi nella poesia italiana recente penserei ad Amelia Rosselli e a Cristina Annino sia per la conformazione tipografica dei testi che per la capacità di sconvolgere radicalmente i domini dell’io e di inventare ritmi e immagini del tutto inediti capaci di esprimere con convincente forza poetica e intellettuale quello che il Golem è (o vuol essere o continuamente diviene nel suo essere), un Golem che, non lo si dimentichi, reca come sottotitolo L’interruzione, vale a dire l’esplicitazione di una cesura che si apre nel flusso abituale del vivere e del dire: vengono interrotti riti, atteggiamenti, modi di essere e di vedere, lo stesso “essere parlati dal linguaggio” che l’apparizione del Golem mette in discussione e in crisi.

        E prendendo a esempio il testo di pagina 46 non sfugga nemmeno l’uso peculiare delle parentesi le quali in tutto il libro possono presentarsi tonde o quadrate come a voler creare una prospettiva (o profondità) sia spaziale che temporale e, anche, a suggerire cambiamenti di tono nella lettura.

le ore alte passano così come l’ombra
a volte una lama le taglia
perché nella stanza se entra luce
lui inorridisce; ma sono solo
le sirene in autostrada:

a singhiozzi i lampi intermittenti
ti illuminano la faccia: non gli sei
stato mai così riconoscibile come
ora che hai il volto mostruoso del
deforme
(p. 47)

        La mostruosità e la deformità sono attributi precisi che, anch’essi, si pongono sul versante esattamente opposto al loro significato comunemente condiviso e inteso: il monstruum è tutto quello che sorprende e meraviglia, che, mostrandosi (cioè dandosi a vedere), si rivela e non può essere ignorato; il de-forme è tutto quello che esce fuori dai canoni e dalle convenzioni, che li rovescia e contesta:

[…]
lui è fatto di fango: noi con lui;
ora che noi siamo loro – mi dici
siamo immortali (i mostri non
muoiono)
(p. 48)

        ed è tutto un movimento (specialmente notturno) e «stanotte / sa dire il rumore di corpi l’avvinghio / ci chiede […] // se il silenzio segugio gli riapre quel taglio / e girandosi cade: noi lo afferriamo / e lo rimaniamo» (p. 49); «la notte più lui dorme più si indurisce; // […] // […] prova la manovra // e si schioda ma nel farlo molti pezzi / tuttingiro tuttatterra volati rovinati; / al risveglio ci troviamo tante piccole / parti di lui nel letto, trattenuti, ci ingessiamo» (p. 50).

        È così che la parabola di Primo Carnera dal tragico match contro Ernie Schaaf fino alla conquista del titolo mondiale dei pesi massimi dilata il farsi del “colosso” dislocando nello spazio e nel tempo uno dei temi fondanti del libro di June Scialpi che è il rapporto del Golem (del suo farsi, mutare, crescere) con la storia e con la cultura, con i condizionamenti da parte del potere e con le attese dell’ambiente nei loro risvolti di carattere politico e sociale:

si appoggia a una riga di testo per non lasciarsi 
sorprendere; è avvenuto un sorpasso, non sa
quando ma è avvenuto, arriverà per le 22, arriva
sempre dopo la palestra e una doccia, sempre come
arpione lascia crepe nelle cose che conquista, le apre
fino allo slabbrarsi della lingua, si spoglia lentamente
e piega tutto: lo poggia sulla sedia (che tanto non ci
serve) mi sorprende che l'osservo; secondo la regola
non si può parlare: si avvicina, si accascia e inizia a
piangere
(p. 64)

(a volte prima di ricomporlo lo fai in piccoli pezzi
ne conservi ogni cosa con orgoglio; lascia che si
magnifichi ora)

Carnera
finisce tra di noi anche 
la parola, non lo
vedi? come sfuma
come fa questa violenza:

bastone senza carota 
gesto senza frase così
ci fai tuo; 
nella rassegnata calma
del condannato
(p. 67)

        Il Golem. L’interruzione si avvia alla propria conclusione attraversando la lingua dominii, dove «la dittatura aveva instaurato un silenzio benevolo» (p. 84), dove «manca – c’è / qualcosa che non viene detto / ora» (p. 85) e dove

i pomeriggi del Golem sono il tempo
sospeso
la luce che entra dal vetro
il trapasso che opera sulla polvere
che si posa sulle cose solo per dire
c’è ancora del tempo; prendi

porto calore e pessimi presagi
ti ho fatto il pieno di fuori
(porto di tutto un po’)
c’è l’opera santa e santa è la voce
(che ora non uso)

l’ascolti? la voce del Padrone
(ci dice la calma
prima dell’azione)
(p. 86)

        E forse uno dei centri nevralgici del libro risiede nei versi «(siamo qui / eppure a me pare che siamo / cesure tra i mondi)» (p. 88) e «(le sue narrazioni assumevano forme e queste forme / sono le persone che ne fanno parte // […] siamo lì, cesure diverse tra i mondi / spaccature in questa crepa» (p. 89) perché tutto il processo incessante del farsi e disfarsi del Golem ben dice il farsi e il disfarsi del vivere quotidiano e, anche, della scrittura stessa, del testo che continuamente cresce, si spezzetta, si dirada per tornare ad addensarsi, è cesura-legame “tra i mondi” proprio perché proprietà paradossale della scrittura che si fa testo è, contemporaneamente, il suo separare e collegare.

vero e certo
[ci ringrazierai]
e vedo il Golem che siamo noi tutti dentro:
lo accarezzo, stai tranquillo, adesso.
Ti coeso
(p. 91)

        Il testo conclusivo reca un esergo di Claudia Ruggeri (altra autrice cui si possono ricondurre molte scelte linguistiche, tematiche e ritmiche di June Scialpi) e sigilla la giuntura (decisiva) tra vivere e scrivere in poesia dal momento che il farsi del Golem è, anche, il farsi, il crescere, l’ “indurirsi” del testo in versi, il suo precipitare, rompersi (in fondo la versura consiste proprio nel rompere l’unità ritmica e sintattica della frase), raccogliersi nuovamente, crescere e concrescere con l’esistere quotidiano di chi scrive (e di chi legge), porsi e porre oltre; a ben considerare il testo è argilla plasmabile, basta la sottrazione (o anche l’eccedenza) di una sillaba, di una vocale perché il testo viva o muoia:

Lascio pareti chiare
per le tue questioni
di preghiera. Mi tolgo
dal dettaglio di questi
ultimi versi; gira
e rigira tutto il barbàglio,
tutta la verità sta qua.
Claudia Ruggeri


ora che la poesia è questione di vita o di morte

lo abbracciamo
e nell'abbraccio siamo uno: 
assorbiti dalla creta
palesàti (mai stati nati)
per sempre confortati
il Golem mi dice (e 
quindi ci diciamo) lo vedi
scrivere poesia è 
potersi non pensare
[in un finale]

smettiamo di chiedere.
(p. 92)



Nota: le immagini che corredano l’articolo sono riproduzioni di opere di Piero Manai.

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