Su Libri e Recensioni Luisa Debenedetti scrive de I passi base di Fabrizio Morlando.
Alla prima categoria appartiene “I passi base” di Fabrizio Morlando, una raccolta di racconti che, come lo sono i passi base per la danza, si potrebbe azzardare di definire necessario. Necessario, perché nella diagonale di un tempo vilipeso e offeso nelle sue ansie di separazione, ci ricorda attraverso una parola esperta ed esatta, nel suo essere asciutta e provocante, quel rischio di morte sempre presente là dove il dolore, nella sconnessione del corpo, racconta del mondo e dei mondi, della vita a partire dall’anima nel suo isolamento e, dunque, la sua negazione. La frattura sociale in questa guerra si accompagna allora, in un gioco macabro e a volte ironico di reciproci tagli, alla costellazione silente delle tante implosioni personali e collettive, di solitudini ammassate, di inaccessibili ripiegamenti nel timore.
Morlando mette il dito in una prosa, che spesso è poesia, per forza di cose molto corporea; il corpo diventa veicolo di un riconoscimento che passa da se stessi all’altro a volte nella direzione della rottura, altre in quella della prossimità e che, dunque, viene dal medesimo infangamento, dalla medesima secca. Un corpo a cui l’Autore dedica sezioni, come chirurgo, usando la parola come un bisturi per separare dal male una carne arroccata, compressa, a tratti disumana nel suo perdersi nell’abitudine a qualunque tipo di morte. La morte che accompagna il corpo, è la vita messa di fronte alla sua fugacità ma è anche il covo dove si annida una nuova scintilla per chi resta, il punto da cui ripartire e risorgere, più forti di prima pur se sottomessi ai capricci del fato. Ma è pure un corpo a suo modo immortale, quello cui fa appello, il diritto alla disperazione riservato solo a chi non smette di sperare nel futuro. Per questo lo sguardo si fissa nel coraggio di comprendere di non essere solo l’inizio e il termine di se stessi ma la chiave di una congiunzione nella quale anche il dolore, se adottato e liberato, può farci riportare vicino il nostro io più lontano.
Perché, se la vita e la morte sono facce della stessa medaglia, giochiamo a “testa o croce”, apriamoci al rischio proprio dove il destino non è chiaro, obbligando la vita a fare passi avanti. E non rinunciamo all’ironia, a trovare il sorriso nel suo valore salvifico, sia pure grottesco, davanti all’ineludibile. Ed è per questo che lo consiglio nella sua necessità.