Su Leggere tutti Gisella Blanco scrive di Eliodoro di Mario Fresa
“Eliodoro”, un romanzo dai mille linguaggi
di GISELLA BLANCO
Eliodoro, il primo romanzo di Mario Fresa (Fallone editore, 2022), è un aristocratico pastiche di fatti e linguaggi che ben rappresenta lo straniamento – quasi del tutto volontaristico – dell’io contemporaneo. Un io che non ha più bisogno (o crede di non averne) della sua singolarità, dell’individualità e di un preciso contorno definitorio, prediligendo (e qui, anche non volendo, conferma di essere) i non confini della pluralità – che non sempre e non solo è coralità.
Una lunga serie di frammenti evenemenziali, collegati da una numerazione crescente e anch’essa talvolta parcellizzata in progressioni alfanumeriche, consente lo svicolare della progressione stessa dalla necrosi della prevedibilità (si può contare, ma non si sa quali siano i componenti storico-sequenziali del prossimo numero, del prossimo capitolo di vita).
“L’arte è legata all’origine che a sua volta è sempre in relazione con la non-origine: essa esplora, afferma, suscita, in un contatto che fa vacillare ogni forma acquisita, ciò che è essenzialmente prima, ciò che è senza essere ancora. E, nello stesso tempo, precede tutto ciò che è stato, è la promessa mantenuta in anticipo, la giovinezza di ciò che sempre comincia e non fa che cominciare”, scrive Maurice Blanchot in uno dei saggi raccolti nell’antologia L’amicizia (Marietti).
L’opera di Fresa inizia con un incidente e un tradimento amoroso, anche se, a ben vedere, è improprio affermare che inizi, anche a livello formale. La prima parola è una “e” di congiunzione che sembra continuare un discorso non interrotto e non interrompibile. Una serie di personaggi si alternano vorticosamente tra gli scorci narrativi ma, ancora, è più corretto evitare di pensare a una narrazione vera e propria, a una storia con un inizio e una fine (e con un fine). Sul lettino dello psicanalista, Eliodoro racconta, senza narrare, i fatti e i misfatti di una società grottesca, comico-drammatica, palazzeschiana e infinitamente incongruente.
Il linguaggio psicoanalitico si interfaccia con il sogno dell’impaziente paziente e con la menzogna, dove spesso immaginazione e rielaborazione coincidono, levando credibilità alle forme del vero (che sembrano non esistere). Si potrebbe pensare al Museo immaginario di Andrè Malraux, alla “conquista dell’ubiquità” (per dirla con Paul Valery) dell’arte moderna che ha una durata solitaria e indefinita, schiera una dopo l’altra le opere, decontestualizzandole e mostrandole nella loro assolutezza disarmata. Così avviene per le vicende, i riferimenti colti, la joie de vivre tristissima e intelligente dei non-personaggi di Fresa, non cristallizzabili e non spiegabili se non con la formula del nonsense (che ha sempre ragion d’essere). Una riscossa del non, della decostruzione post-strutturalista che riprende in prosa la versificazione criptica e ipnotica del Fresa poeta, sfuggente da qualsiasi categorizzazione letteraria.
Si potrebbe forse parlare di una prosa poetica con un multiverso che non va a capo, ma che non trascura le regole del suono (“e mentre siede se la ride, e mentre ride siede”) e i dettami delle figure retoriche annidate tra affermazioni, dialoghi e incisi (“Quel lungo buio, adesso, fa pensare a una balena pesante e dolorante”; “Il sangue zampillava come una lingua presa da balbuzie”). Gli slanci lirici più forti, per i quali non è nemmeno possibile parlare di un costrutto sintattico e semantico piano, si palesano proprio nelle affermazioni apparentemente più assertive e apodittiche (“ma la mia vera età comincia con una malattia”; “la più vigile, cioè la più colpita”). Tali picchi di risolutezza espressiva mostrano, però, una palese vena polemico-comica che nell’atto di unire scene e dettagli tra i più svariati e anche antitetici, ricorda le famose cartoline sanguinetiane.
I capitoli finali, le “Regole del gioco” ultime e originative, sono in versi: una fase che ha a che vedere con la morte ma non è terminale, non è riepilogativa o disvelatoria. La forma in versi palesa un’ulteriore urgenza di asciuttezza, il respiro tronco, l’attimo fatale: “Con la morte, tutte le azioni/e tutti i movimenti ritornano al loro posto iniziale”. Vivissimo il trauma, spezzettato e informe, che congloba senza confondere vite, destini, pensieri, opinioni, razze, specie e momenti: sembra quasi che non si possa desiderare di meglio.
“Dove la vuoi questa ferita?”.