Giovedì 27 Luglio 2023 – Sentieri di Antonio Devicienti su Il primo amore

Su Il primo amore Jonny Costantino scrive di Sentieri. Saggi e racconti sul corpo della scrittura di Antonio Devicienti.

 

Andare fessurare danzare: tre estratti da “Sentieri” di Antonio Devicienti

 

L’acutezza di percezione e la finezza del tocco. Il polso analitico e il gusto per l’accostamento ideogeno. La passione per l’affondo verticale e la delicatezza nell’indagine dei margini. L’intuitiva capacità di sintonizzarsi sull’essenziale e la vibratilità rispetto alle epifanie che hanno luogo, talvolta ai limiti del subliminale, tra l’affioramento e l’inabissamento. Il fuoco e l’amore per quel che avanza: cenere, cancellature. Sono qualità di Antonio Devicienti scrittore che condensate ritroviamo nella sua ultima fatica: Sentieri. Saggi e racconti sul corpo della scrittura, edito da Fallone Editore nell’aprile 2023.

Leopardi Giacomelli Cavalcanti Celan Penone Kiefer Machado Brancale Bachmann Ruefle Chillida Montaigne Hölderlin Herzog Pollock Guida Bergeret Mandel’štam Florenskij: sono in ordine di apparizione alcuni artisti della parola e dell’immagine attraversati in Sentieri

Col consenso dell’autore – che approfitto per ringraziare della sua strenuità nel presidio della fortezza, della sua irremovibilità contro l’avanzata del deserto – ti riservo tre assaggi: gli incipit da me apposta disannotati delle tre parti che compongono quest’opera scritta con lo sguardo e nondimeno con l’udito, sotto le cogenti e costanti pressioni del silenzio che dà spessore alla parola e profondità alla voce.

Parte Prima
Guardare. Immaginare. Andare
[L’occhio, la mano]

Inizi da qui, da Palazzo Leopardi a Recanati, quest’itinerario della scrittura che concepisce sé stessa quale andare del pensiero e dell’immaginazione.

L’attraversamento delle sale della biblioteca (le finestre spalancate sul Borgo), l’uscita nel giardino interno del Palazzo, movimento del corpo del visitatore mentre si prova a immaginare il poeta nei luoghi della sua infanzia e giovinezza, è moto assai frenetico della mente che raccoglie sensazioni, suggestioni, intuizioni.

Andare attraverso le sale della biblioteca, camminare è atto fisico che soltanto anticipa (o ricorda) quello che accade quando si legge, quando si scrive: si apre un libro o un quaderno e si comincia ad andare.

E già aprire è atto gioioso, in primo luogo materiale perché si apre il libro agendo con le due mani (oppure si apre il file) con un movimento per lo più inavvertito delle dita; non si trascurino questi atti all’apparenza semplici, ché sono essi a permettere di entrare e di cominciare l’esplorazione. Aprire è por fine a un’atte- sa (a un desiderio), incanalare il desiderio (l’attesa) lungo sentieri che lentamente si rendono visibili, ma è sempre tutto il corpo ad accompagnare la lettura (è il corpomente ad attraversare le sale della biblioteca), anche quando esso sembra eclissarsi cedendo il campo alla sola mente che legge – ma il libro e la lettura sono inscindibili dal mondo che li contiene e li alimenta.

Guardando dalle finestre della biblioteca aperte sulla piazza dalla forma allungata può venire in mente un frammento dello Zibaldone (primo ottobre 1820): «Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella» – forse lo stesso Palazzo Leopardi, sicuramente una delle molte case marchigiane adagiate tra i campi arati e coltivati o sui pendii collinari potrebbe davvero stare sospesa nell’aria e oscillare piano sostenuta dalle funi che la legano a una stella: un ragazzo desideroso dell’altrove, intento a scrivere accanto alla finestra, esperisce da lassù la felice leggerezza dell’immaginare.

[…]

Parte Seconda
Il vuoto. La cancellazione. Fessurazioni
[Un orecchio. Passi]

Il concetto di luogo e di itinerario riverbera anche del fascino di una sua impalpabilità, di una sorta di sua smaterializzazione, puro nome eppure reale e abitabile; rileggiamo i versi famosi di Antonio Machado:

Caminante, son tus huellas
el camino, y nada más;
caminante, no hay camino:
se hace camino al andar.
Al andar se hace camino,
y al volver la vista atrás
se ve la senda que nunca
se ha de volver a pisar.
Caminante, no hay camino,
sino estelas en la mar.

Viandante, sono le tue impronte
il cammino, e niente più,
viandante, non c’è cammino,
il cammino si fa andando.
Andando si fa il cammino,
e nel rivolger lo sguardo
ecco il sentiero che mai
si tornerà a rifare.
Viandante, non c’è cammino,
soltanto scie sul mare.

Itinerariorottasentierocammino sono i nomi di un’idea, di una percezione, di un desiderio: l’andare non è questa strada, non questo vicolo o questo sentiero, ma la strada, il vicolo, il sentiero che esistono e si trasformano in andare solo se e poiché vengono percorsi e, in poesia, detti – l’impalpabilità del cammino in quanto esperienza esistenziale che diventa poi solco profondo nella mente e anche memoria è, nella scrittura di chi percorse con il corpo e con la mente i campos de Castilla, sigillo dell’andare e di un nomadismo connaturato all’essere umano, inestirpabilmente legato all’origine stessa della specie.

Antonio Machado consegna a questi versi magistrali il sigillo dello stesso scrivere, di questo tracciare cammini che coincidono con l’andare e che paiono dissolversi oppure forse rimanere, ma nella scrittura che, a ben pensarci, il letto- re deve cercare, seguire per percorrere a sua volta cammini che in parte coincidono con quelli del testo scritto, spesso si divaricano da esso diventando sentieri personalissimi e an- ch’essi impalpabili, potenti della propria fragilità e forza immaginativa. Si pensi qui anche ai disegni di Vija Celmins che raffigurando le onde di un tratto di mare con sbalorditiva fedeltà e indicibile pazienza le mostrano quali quint’essenza della fluidità e dell’instabilità: il mare, pur solcato, cancella prestissimo il segno labilissimo di un passaggio vanificando ogni illusione di durata e riconsegnandoci all’eraclitea sapienza dell’impermanenza.

[…]

Parte Terza
Torri. Porte. Soglie
[Una danza, un’abluzione]

Sono molte le torri che svettano nei continenti della letteratura (ma dovrei più appropriatamente dire della scrittura) e tra di esse c’è, ovviamente, quella di Monsieur de Montaigne e ora è come se, prima di una nuova partenza, m’intrattenessi un poco in quella torre per il necessario viatico, è come se ogni giorno provassi a vergare sulle travi della mia torre interiore nuovi adagi incontrati nell’oceano immane delle scritture. Le torri sparse nel gran continente della scrittura non isolano e non separano, ma attuano il proprio paradosso che le invera e dà loro senso: sono luoghi del custodire e del preservare che diventano ponti e porti, diventano porosi recinti che abbracciano il mondo e che s’aprono ad altri mondi.

Essayer: saggiare: ma anche tentare diprovare a: senz’alcun dubbio esplorare, sottoporre a ripetute prove, studiare. Come la biblioteca di Palazzo Leopardi a Recanati, anche la torre di Montaigne in Dordogna apre, dall’apparente reclusione, i sentieri del pensare e dell’immaginare e condividerò ora un piatto di legumi aromatizzati con erbe e un parco bicchiere di vino col Signore de Montaigne prima di rimettermi di nuovo in cammino. La luce nella torre favorisce la lettura. La conversazione dissolve clessidre e orologi.

È per questo, è per associazioni d’idee, affinità, richiami, parallelismi che aboliscono tempo e spazio che un itinerario possibile può legare le terre di Dordogna e di Bordeaux con il Neckar e con Tubinga: nel dicembre 1801 Friedrich Hölderlin si mette in viaggio, inopinatamente a piedi, verso Bordeaux, giungendovi il 28 febbraio – ha accettato l’invito a lavorare come precettore in casa del console di Amburgo e commerciante di vini Daniel Christoph Meyer e attraversa la Francia nel cuore dell’inverno, sorvegliato con sospetto dai gendarmi francesi, affrontando i disagi di un viaggio lungo e compiuto in condizioni climatiche e logistiche avverse; ma nel maggio dello stesso anno, per motivi mai chiariti, riparte da Bordeaux a piedi e giunge a Stoccarda sul finire di giugno in disastrose condizioni fisiche e psichiche: è l’inizio del lungo periodo di sofferenza interiore che culminerà nel ricovero nella clinica psichiatrica di Tubinga (1807) seguito dai 36 anni di permanenza nella “torre” della città sul Neckar, accudito dalla famiglia del falegname Zimmer; è questo viaggio, è questo successivo periodo di anni che continua a interrogare molti poeti e che desidero lasciare affiorare in questa parte conclusiva del libro – attraverso le Hölderliniae di Nathaniel Tarn (sorta di poema-biografia in versi del poeta svevo, ma anche meditazione sulla poesia e sul suo rapporto con il mondo, con la lingua e con la storia) e nelle pagine finali leggo: «[…] Walks to // Bordeaux and back: the job is inconclusive, never described. / He has seen Paris» ché Parigi fu anche per Hölderlin meta desiderata, ma Tarn affida al silenzio di pochi versi il silenzio che ancora avvolge il viaggio e il soggiorno bordolesi e che prepara i giorni nella torre – torre möwenumschwirrt, stando a Paul Celan, circondata dai gridi dei gabbiani, luogo del gennaio52, ma non prima che siano nati i versi di Andenken (Ricordo del 1801) nei quali il soffio del vento di nord-est riconduce la mente verso la Garonna e Bordeaux: «Der Nordost wehet, / der liebste unter den Winden / mir, weil er feurigen Geist / und gute Fahrt verheißet den Schiffern. / Geh aber nun und grüße / die schöne Garonne, / und die Gärten von Bordeaux» – le querce, i pioppi, gli olmi, il cortile in cui cresce il fico, donne brune che passeggiano nei giorni dell’equinozio, il parlare d’amore sono meta di quest’itinerario del rammemorare e l’andare della mente si spinge oltremare, naviga, cerca l’origine stessa dell’umano errare, affida ai poeti la parola chiarificatrice.

[…]

 

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