Su Via Lepsius Antonio Devicienti recensisce Ludwig di Andrea Leone.
Nel martello del cervello: su “Ludwig” di Andrea Leone
di Antonio Devicienti
Anche questa volta si pensa al Manfred incarnato da Carmelo Bene, agli spasmodici recitativi del Tristan und Isolde di Wagner, alle affermazioni vertiginose di assoluto del Prinz von Homburg di Kleist mentre si leggono le sequenze di Ludwig di Andrea Leone (Fallone Editore, Taranto 2022) che ripete le altezze e le sontuosità del dire già raggiunte in Hohenstaufen e in Kleist – e si ha l’impressione di essere davanti a una “trilogia tedesca” nella quale si compie il miracolo di poter leggere in italiano sequenze di testi che, se fossero scritti in tedesco, avrebbero la stessa forza espressiva e concettuale, il medesimo ritmo antiretorico eppure sapientemente condotto secondo l’arte del dire e dell’argomentare.
Andrea Leone riafferma, nella sua scrittura, la caparbia e coraggiosa volontà di affidare a un dire innodico e temerario, tesissimo fino al proprio limite di rottura e demiurgico, la possibilità di rifondare il rapporto tra l’io e il reale nel quale l’io non sia subalterno e reificato: «ricordami il progetto, / ripetimi in segreto: / “Da te io voglio questo”» (p. 30).
Probabilmente si deve muovere dalla domanda “chi parla in Ludwig?” per provarsi a comprendere questo libro – e scelgo a ragion veduta il verbo che direttamente deriva da cum-prehendere piuttosto che “capire” derivante da capio, dal momento che è necessario accogliere dentro il proprio mondo interiore un’opera comunque sfuggente ed enigmatica, caratteristiche queste ultime perfettamente coerenti con il modo d’intendere la scrittura in poesia da parte di Andrea Leone.
In Ludwig parla l’indimenticato Re di Baviera e allora questa è scrittura che mette in scena fatti (anche tragici) determinati da una ribellione contro il reale, dal rifiuto di accettarne prosaicità e banalità, bassezze e volgarità.
Oppure parla l’autore, che in tal modo, per interposta persona, dichiara (e declama) il proprio rifiuto della modernità e della contemporaneità se esse significano condanna a morte del sublime che, però, viene cercato nello splendore delle partiture verbali che costituiscono, pagina dopo pagina, il libro.
Parla la poesia stessa, che, come impadronitasi della scrittura di Leone, dispiega in virtuosistiche variazioni la propria potenza nel suscitare dal nulla mondi di pensiero e di canto.
Parlano più voci che, in un singolare intreccio che mi permetto di definire di “monologo dialogante” e di “dialogo monologante”, tessono uno spazio sonoro e concettuale che non dà tregua al lettore ponendolo innanzi alla verità per cui ogni scrittura che possegga energia di vita e di concetto ferisce e purifica lo sguardo.
Da parte mia non mi so (e non voglio) decidere, anche se preferisco scorgere in Ludwig il farsi stesso della scrittura in poesia, il sorgere e l’accamparsi pagina dopo pagina dell’agone in atto tra l’ancora informe materia verbale e concettuale e il suo divenire verso, testo, poema.
Ludwig è, infatti, il poema che, per esempio, sarebbe stato l’Iliade se il suo rapsodo fosse stato Achille, è anche quel titanismo cui la poesia non vuol rinunciare, quella concomitanza dell’energia e della forma che non la imbriglia o limita, bensì la rende visibile e palpabile.
Ma Ludwig II di Baviera è stato il re che secondo Luchino Visconti avrebbe governato più con l’arte che con la politica e infatti, se in Hohenstaufen protagonista è un io che costruisce e afferma sé stesso di fronte al caos del reale, se in Kleist si tratta di un io che riafferma la propria aristocraticità conquistata e coltivata attraverso la sofferenza inflitta dal reale inteso ad annientare la libertà individuale, in Ludwig quell’io vuole contrapporsi al reale in virtù dell’esercizio dell’arte dando forma di bellezza anche a ciò che alla bellezza ricalcitra. In questi nostri anni per molti aspetti volgari e più o meno consapevolmente annientatori della bellezza, Ludwig è l’azzardo, l’utopia, è provocatoria sfida.
La stanza azzurra della mia testa - gli infiniti gli inflessibili incidenti delle mie menti - la galleria di specchi dei miei cervelli - l'autore drammatico che mi ha creato - il mattino che allestisco in tutto il libro violentissimo - Tu sei la pura partitura che mi esegue, tu sei esattamente la lente delle spietatezze, tu sei l'implacabile sole di sangue nelle stanze, tu sei il delitto che dirigo, tu sei il pericolo che indico. Tu mio altro tu mio inaspettato attentato matematico. Mio creato dal crollo. Mio contemporaneo del canto. Mio coetaneo dell'entusiasmo. Tu mi stai accanto nello schianto umano, tu totalmente sorprendente detti le regole della legge, tu incessantemente sei le mie idee segrete vertiginose di perfezione, tu sei la febbre, tu stai oer vedere, tu sei veramente totalmente vivente, tu hai scelto di essere un dio nelle epoche. Tu il miracolo che un giorno mi ha edificato, tu il prodigio che da solo si è costruito. (pp. 19 e 20)
Ludwig è serrata, incessante dialettica tra “io” e “tu”, instancato processo che non permette mai di stabilire gli esatti confini tra queste due polarità le quali, infatti, sembrano continuamente scambiarsi, sovrapporsi, separarsi ma sempre trattenendo l’una qualcosa dell’altra per tornare a coincidere, scindersi, mutare nell’immutabilità del moto che sembra essere la loro essenza, proprio come se l’arte stessa fosse, nella sua immutabile ricerca della bellezza, inesausto mutare.
Il tuo mito è il mio corpo, il tuo dio è il mio racconto, il tuo rapporto portentoso è il filo rosso in cui mi conosco, il tuo mondo è il mio feudo, il tuo fulmineo genio è il mio oceano, il tuo medesimo millennio è il dominio che non dimentico, il tuo secolo è l'unico cielo vero in cui vedo. (p. 24) Io sono le ferree primavere e potenze, l'aumento in cui rappresento me stesso, gli attacchi dei più alti entusiasmi implacabili, io la forma, io il tema, la dittatura della tua partitura, la libera regola, tu pura veglia vera, io il tuo sosia della storia, io il tuo sosia della vittoria. (p. 25)
Se la vicenda storico-biografica di Ludwig II di Baviera può rappresentare il pre-testo al testo-poema di Leone, se si può anche cedere alla tentazione di scorgere la figura di Wagner o di Elisabeth von Wittelsbach tra i versi italiani (moto della mente non inopportuno e non privo di fondamento) si tenga ben presente il fatto che il libro, esattamente come Hohenstaufen e Kleist, possiede le virtù di quelle opere scaturenti da dati reali, ma capaci di generare poi un proprio cosmo indipendente e originale.
Tu sei me e io sono te; tu esisti e io avvengo, ti manifesti e io mi vedo, ti conosco e tu sai chi sono, tu mi chiami e io mi nomino, tu ti cerchi e io mi trovo; hai luogo e io appaio, pronunci le mie vere nature e io ho il mio nome, sei l'elenco elettrico e io l'eco, sei l'invito infinito e io l'individuo. (p. 29)
Naturalmente (e per ragioni molteplici) compio una scelta parziale e opinabile di passaggi dal libro, ma vorrei richiamare ora l’attenzione su alcuni Leitmotiv:
partitura: questo termine ricorre in più di un luogo del poema e ovviamente riconduce all’importanza fondante della musica nell’esistenza di Ludwig, ma anche alla natura stessa della lingua del poema, già predisposta per un’eventuale messa in musica sotto forma di cantata o di melologo e, filosoficamente, all’ontologia dell’azione dell’eroe tutta intesa alla creazione dell’opera d’arte;
specchio: sono colme di specchi le residenze (i “castelli”) volute dal re di Baviera e gli specchi ritornano nei versi di Andrea Leone perché nell’arte ci si specchia e perché nell’arte si specchiano i nostri desideri e sogni, perché l’illusione e il doppio sono elementi essenziali del nostro vivere e sentire, perché gli specchi dilatano lo spazio e potenziano la luce e, riflettendo le immagini, sono materializzazione visibile e fattiva della macchina dell’immaginazione e dell’arte che, a sua volta, genera e moltiplica immagini, abita il mondo proprio in quanto creatrice d’immagini; perché essere visto significa venire a esistenza e vedersi vuol dire comprendersi – ecco per esempio «Gli infiniti specchi scritti» (p. 49)
cervello: (anche martello del cervello e cervello elettrico, galleria di specchi dei miei cervelli) perché è nel cervello – nella mente, nel labirinto del pensare e dell’immaginare, del fantasticare e del desiderare – il battere e il ribattere del pensiero-ossessione, è lì che si scatena e corre l’energia dell’esistere e del creare, lì il cervello stesso può moltiplicarsi, concepire paradossi, antinomie, utopie e, naturalmente, rischiare l’accusa di follia, specialmente quando l’antagonismo rispetto alla volgarità e alla bassezza del reale diventa radicale e irrinunciabile, quando sembra riaffacciarsi quel Genie di ascendenza stürmeriana – per esempio «Trame adorate del nume tutelare, / siete ritornate ad entusiasmare / l’avvenimento geniale» (p. 51) e l’entusiasmo è, ovviamente, l’essere “pieno del dio”, la Begeisterung è, in tedesco, l’azione del dio-Geist che s’impossessa dell’animo;
spavento: perché, alla maniera di Hölderlin, scrutare l’oltreumano e il manifestarsi degli dèi è pericoloso e genera timore del sacro, ma, nel medesimo tempo, è sentire l’abisso mentre ci si affaccia su di esso, riconoscersi umani proprio nel contatto rischiosissimo con il divino – e infatti «Numi tutelari, / nati per raccontarmi, / mai un tempo / in cui io non sia stato / ciò che voi avete narrato» (p. 46), «Spavento, / sei il libro eletto, / la musica che eseguo» (p. 34);
matematica (matematiche): nulla è casuale né abbandonato al caso, ma tutto ha un ritmo e un ordine, il pensiero e l’immaginazione posseggono quel rigore che solo consente di addivenire all’opera d’arte; la musica stessa è matematico linguaggio e armonia matematica; indimenticabile e ammirevole la progressione: «le matematiche / le matematiche ereditate / le matematiche ereditate nell’esaltante / le matematiche ereditate nell’atlante esaltante / le matematiche ereditate nell’atlante esaltante dell’istante» (p. 50);
romanzo, biblioteca, teatro, palcoscenico: sono tutti i nomi del vivere teso a diventare arte, racconto, canto, complessità di visione e azzardo di pensiero – per esempio «Con te l’arte / è il diamante vivente» (p. 45), oppure «Vuote onde di luce / di tutte le letterature, / siete ritornate a distruggere» (p. 50);
stanza: e stanze, vale a dire quelle di Linderhof e degli altri “castelli”, il cervello stesso, le stanze-strofe del poema e le macroparti del poema di Andrea Leone, gli spazi del pensare e dell’immaginare, quel che contiene ciò che non si lascia contenere.
[…] Il fango è trasformato in canto, il collasso è trasformato in un concerto, l'assalto è trasformato nel romanzo. L'innamoramento è il beato tremendo allo specchio. Il linguaggio è il teatro, le frasi sono gli attori, le ore sono le scene, il metro è il palcoscenico. Sento di me stesso la voce mmobile, realizzo il libro vivo, redigo la trama suprema, forza ininterrotta incido la fortuna che non muta. Il cervello elettrico, la spietatezza geometrica, la fatica magnifica che mi edifica, il trauma a forma di testa sono il sublime spavento, il ferro del momento. (p. 31) […] tu che mi leggi prima che io abbia scritto tu che mi hai acceso perché io sia il tuo strumento tu che mi hai scelto perché tu possa vedere te stesso tu che mi ascolti prima che io abbia parlato tu che sei apparso nell'attimo in cui mi hai guardato tu che mi hai sempre immaginato accanto tu che non ho mai abbandonato. Inizio a pronunciare tutto ciò che hai da mostrare; continuo a scrivere tutto il tuo capitolo; riprendo a suonare tutta la tua musica, so disegnare la tua totale immagine, voglio recitare tutto il tuo spettacolo, autore delle tue meraviglie proteggo il prodigio per demolire, demone felice ora che stai per dire come davvero mi chiamo, ora che sei tornato, ora che mi hai visitato, ora che sei stato ascoltato. (pp. 32 e 33) Nascere folgorante, marziale istante delle infanzie, spezzate le scene simultanee, diventare la frase musicale fulminante, assaltare le ere dell'allarme. Ereditare l'eccezionale fuoco divorante, Linderhof abbagliante, Linderhof implacabile, Linderhof esaltante teatro di carne, Linderhof astro dove esordisco, Linderhof divo del vero tra i frastuoni delle illusioni, tra gli infiniti delle infezioni, tra gli estimi delle estinzioni, tra i manicomi delle generazioni, tra i nati nei manicomi dei corpi. Attraversare le casate spietate, lefrustate estatiche, le staffilate straordinarie, la febbre di fiabe, le caste entusiaste, la catastrofe di chiamate, gli schock tellurici, il fiume di furie, il fervore di storie, nate per creare, nate per annientare, nate per costruire, costruite per nascere. (p. 41) […] Mi hai riconosciuto nella fila che cancella, duella , dettaglia, distilla il nulla, il nulla elenca. [...] (p. 44) Adesso, nel martello del cervello, io sono […] i drammi matematici calcolati, […] la leggenda del linguaggio, l'infinito edificio vivo costruito, il mondo quando è creato, l'secuzione capitale delle scene, […], l'allarme dell'arte, […], il luminoso dio sismico che ospito, il ciclo preciso che ascolto, di colpo il corso dove conosco il capolavoro. […] gli specchi enciclopedici, […], i palcoscenici dei secoli, chi ho intuìto prestissimo, chi ho scritto sin dall'inizio […], e gli Dei che hanno amato ancora una volta (pp. 52 e 53 passim)