Su L’Estroverso un’intervista di Andrea Leone ad Alessandro Bellasio.
Qual è la concezione, l’idea di Letteratura che percorre il tuo libro? Mi sembra sia molto lontana dalla visione dominante e corrente, perlopiù incentrata sull’impegno sociale o sulla filologia museale o sulla creatività amatoriale.
Dici bene, quanto mi prefiggevo era proprio di ridefinire (non certo ex nihilo, ma sulla scorta di una precisa tradizione) un dominio di esistenza esclusivo per la letteratura… Un dominio in grado di sottrarla a tutte quelle istanze, alle belle cause, per lo più perse o effimere, cui viene puntualmente subordinata, in maniera del tutto illegittima, in ossequio a una cattiva abitudine che risale almeno all’epoca dei Lumi… Viviamo schiacciati dal sociale e dal suo ricatto permanente, la letteratura circostante è lo specchio fedele della nostra condizione di ostaggi. Ecco, mi proponevo di restituire alla letteratura e alla scrittura quel po’ di distanza e di pathos, quell’intransigenza, quella gioia della concatenazione e dello stile che concorrono al suo segreto – un segreto che, a oggi, nessun amatore, nessuna filologia, nessun impegno, per fortuna, le hanno mai potuto estorcere.
Il tuo libro si sviluppa tra linguaggio saggistico e linguaggio più propriamente artistico, con una qualità di scrittura direi molto alta. Ci sono stati dei modelli per te in questo senso?
Mi è stato chiaro fin da subito che, in un’epoca contraddistinta fra l’altro dall’inflazione del genere saggistico, il solo tipo di scrittura ancora almeno potenzialmente gravido di conseguenze per tale genere, ossia capace di sortire qualche effetto non anestetico e magari addirittura ridestare il lettore, inducendolo a un’accensione, fosse quel tipo di prosa vibratile e analogica che, limitatamente ai miei scopi, mostrava i suoi esiti più certi in Benn, in Jünger, negli scritti teorici di Houellebcq, in De Angelis e in Calasso… È a loro che mi sono dapprima rivolto, non tanto o non solo per prenderli a modello, quanto per incanalare il mio lavoro in un alveo ben definito, con obiettivi ben precisi.
“La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, la Letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità”. Cosa ne pensi di questa frase di Antonio Tabucchi?
Mi sembra illustrare, con amabile agudeza, tutto il paradosso di due mondi sempre contigui, sempre sospettosi e gelosi l’uno dei segreti dell’altro, legati da un vincolo originario e fatale, impossibile dire quanto equamente ripartito tra il gioco della verità e l’olimpo delle apparenze.
Usi la parola “ascesi”, parola che si presta senz’altro ad essere equivocata. Cosa intendi esattamente per “ascesi”?
Soprattutto la concezione greca della áskesis, quindi antecedente l’appropriazione cristiana, alle cui pratiche mortificatrici è per educazione incline a indulgere il nostro immaginario. E, però, non la áskesis nel senso marcatamente contenitivo e morale degli stoici, o in quello spiccatamente noetico di Platone; in effetti, la questione della áskesis, di una forma di vita intesa come esercizio di sé su sé, attraversa l’intero arco della speculazione greca, anche se il termine affonda le sue radici nell’ambito dell’atletismo ellenico, dove contrassegnava l’insieme di attività, di esercizi propedeutici all’agone – quell’attimo di splendore terreno intorno al quale orbitava il mondo cantato da Omero, da Pindaro.
La letteratura in quanto ascesi vorrebbe alludere a un’esperienza della scrittura come esercizio conoscitivo, assoluto e solitario, in vista di un agone giocato su un piano, stavolta, espressivo… Se anche lì vi sarà splendore, ecco, quello è il miracolo – miracolo di un’ascesi divenuta ascesa, presenza terrena suggellata da uno stile.
Qual è per te la differenza tra l’esperienza che possiamo definire “religiosa” e l’esperienza che definiamo “artistica”?
La dimensione religiosa, soprattutto nell’accezione confessionale del termine, quello che ci riporta subito alla mente l’ecumene, il culto, l’affiliazione a un dogma qualunque esso sia, mi sembra agli esatti antipodi rispetto ai domini dell’arte.
Tra le due esperienze, che tu a ragione circoscrivi e affianchi, e come del resto sapevano bene i Romantici, esistono dei punti di contatto, ineludibili e immemorabili; e però, visti gli aspetti che elencavo prima, ritengo preferibile parlare di esperienza “estatica”, più che “religiosa”, accanto all’esperienza cosiddetta “artistica”. Credo allora possa accadere di giungere alla prima attraverso la seconda, di rado alla seconda solo attraverso la prima.