Su Nuova Ciminiera una splendida intervista a Vanni Schiavoni a cura di Gabriel Del Sarto.
Al Caffè con Vanni Schiavoni
Questo è il secondo appuntamento con la rubrica Al caffè, a cura di Gabriel Del Sarto. Qui potete leggere la prima intervista.
Qualche mese fa, Vanni Schiavoni ha pubblicato, per i tipi di Fallone Editore (nella interessante collana Il Leone alato curata da Andrea Leone) una plaquette intitolata: “Quaderno croato”. SI tratta di un volumetto denso e concentrato, come piace a me. Come si può leggere anche in rete, la plaquette è stata ben accolta dalla critica, che ne ha evidenziato alcuni elementi di sicuro interesse. In questo dialogo con Vanni, abbiamo cercato di mostrarne altri.
Il viaggio lirico-narrativo che rappresenti in questa plaquette, compatta e molto interessante, ha radici biografiche? In che modo si salda con la storia e la cronaca?
“Quaderno croato” nasce, come intenzione e bisogno, al ritorno da un viaggio fatto in quella terra. Ero partito con uno spirito puramente turistico, non cercavo ispirazioni e non avevo portato con me alcun diario su cui prendere appunti. Ma da subito quel viaggio si è trasformato in un continuo gioco di specchi fra ciò che vedevo attorno a me e ciò che io sono “in me”. Ero in un posto altro, straniero, ma italianissimo: dal Palazzo di Diocleziano alle tante eredità della dominazione veneziana, l’ombra dell’Italia la vedevo impressa ovunque nella pietra. E, laddove quelle pietre sono venute giù, lo hanno fatto, nei secoli, colpite dai terremoti che hanno colpito anche il nostro paese, quelli causati dalla faglia adriatica che condividiamo. Come di quel mare condividiamo ciò che da sempre peschiamo e portiamo in tavola.
Mi sentivo davvero in una giostra di riflessi reciproci, come visitando un museo dedicato a Tito e ripensando a quando si dirimpettavano il partito comunista più eretico d’oriente e il partito comunista più grande d’Occidente; in un tempo nel quale era ancora Jugoslavia, prima che a farne Croazia in mezzo ad altri arrivasse quella che è stata indubbiamente “la” guerra della mia generazione.
In questo continuo andare con le emozioni, fuori e dentro la mia pelle, anche il mio cognome ha cominciato a pulsare: nei secoli XIV-XVII secolo ci si riferiva abitualmente agli immigrati serbo-croati chiamandoli Schiavoni.
Così, al rientro di quel viaggio, è venuto quasi naturale provare a riversare sui fogli tutto questo.
La prima poesia, che corrisponde al primo giorno e al primo luogo del tuo viaggio, si apre e si chiude con due immagini notevoli: “Il primo giorno precipita sempre nello stesso punto/quella rapida che arriva all’incontro / del fiume bianco col fiume nero” e “I laghi cascano nei laghi come fruste sui rami cedevoli/ scorrono in altre acque e piovono così/eterni/ perfettamente indenni” Si tratta del parco nazionale dei laghi di Plitvice, un’area protetta, suggestiva.
C’è, sin da subito una densità nei colori e nelle sensazioni, che tende a volerti invischiare. Leggi e hai la netta percezione che, se le successive poesie saranno come questa, non ti lasceranno quieto. Mi sbaglio? Cosa è l’inquietudine che le attraversa?
Nella sua prima stesura, “Quaderno croato”, contemplava un luogo in più, Zara/Zadar, reale punto di partenza di quel viaggio. La consapevolezza venuta poi a galla è stata quella per la quale il Parco dei Laghi di Plitvice ha segnato l’inizio di un viaggio diverso, il confrontarsi con qualcosa che mi impegnava su un piano “altro”. La descrizione di un luogo come quello richiedeva la ricerca di aggettivi mai usati prima perché mai prima avevo fatto un’esperienza che l’avesse prefigurata. È stato il vero punto di partenza. È stato capire che quel viaggio meritava la mia dedizione.
Quanto all’inquietudine di cui mi chiedi, la parola rimanda al contrario della quiete; che credo sia ciò che un viaggio debba rappresentare: la corruzione di un momento di stasi, il simularsi di una rivoluzione, quella voglia di continuarlo il viaggio, quando ci si sente davvero di essere in viaggio. La speranza è quella che questi testi possano dare abbrivio, nell’anima, a un viaggio che non sia solo turistico, ma un lanciarsi negli intrecci di storia, nelle somiglianze e nelle differenze, nei motivi e nelle colpe, nelle contraddizioni e negli orgogli.
Il senso di stupore che provi attraversando quei luoghi, a volte densi di verde e storia, altre volte aerei e puri, è uno dei sentimenti più netti che questa tua poesia restituisce. Siamo messi, noi lettori, in una posizione precisa: osservare come i luoghi agiscano su di te, sulla tua memoria, sulle tue domande di senso. Arrivi a dire: “Quando smetteremo di essere tentativi?”. Come se la natura, per come si esprime e come la cogli in quel viaggio, ti pungesse, entrasse nella carne della tua esistenza chiedendo ragione o, meglio, chiedendo un rendiconto, di ciò che finora hai o non hai realizzato. E’ così?
Un viaggio come quello raccontato in “Quaderno croato” passa, giocoforza, attraverso una commistione tra le forze generatrici date da Gaia e Antropocene: da un lato la natura nelle sue molteplici espressioni, dall’altro i segni della nostra presenza, sempre più culturalmente segnata.
Entrambi sono punti di fuga grazie ai quali poter mettere in prospettiva la nostra esistenza. Ma, mentre il rapportarci all’antropomorfismo della diversità ci riconduce comunque a una logica che sappiamo gestire (radici, diaspore, appartenenza, estraneità, convinzioni, sensi di colpa, orgoglio, vergogna…); quando invece ci rapportiamo alla natura nel suo puro esprimersi, con la sua logica abbiamo molta meno dimestichezza. Non bada a noi Gea, non ha occhi di riguardo, non è bella per piacerci né crudele per cattiveria; è semplicemente se stessa e si aspetta da noi la stessa cosa. Soprattutto si aspetta che noi, come tutte le sue altre creature, diamo importanza a ciò che conta: l’acqua, l’energia del sole, la sinergia con le altre specie, il contaminarsi, l’adattarsi, il continuarsi. L’essere, sì, indispensabili, ma solo per il funzionamento di un ingranaggio più complesso.
Ecco, penso che la natura sappia, se ben interrogata, offrirci la possibilità di confrontarci con una logica, quella naturale, che è ormai “umanamente innaturale”. Uno sguardo obliquo, insomma, un lavoro per “metafora”, che credo sia il lascito più arricchente che concede il praticare la poesia.
Vanni Schiavoni
Non sei solo in questo viaggio. Spesso, infatti, usi la prima persone plurale, come si è soliti fare quando si fanno reportage di una spedizione. Quando si è “compagnia”. Il tuo rivolgerti a questo “tu” è sempre al cospetto del luogo. Un tu, che a volte fatichi a raggiungere, che si pone davanti o al tuo fianco. Accade poi, nel quinto movimento, quando siete a Sebenico, che tu dica: “In questo momento so esattamente chi sei”. Cosa puoi dirci sul ruolo dell’altro, nel viaggio? E del processo che si attiva, durante il percorso, nel “noi”?
Se mi trovassi a commentare questi testi come non fossero miei, probabilmente azzarderei – forse senza sbagliare di tanto – che la persona che accompagna nel viaggio la voce narrante, finisce con l’identificare l’altro da sé del poeta, il suo continuo interrogarsi, non tanto su ciò che vede, ma sul significato di ciò che vede. “L’altro”, quindi, non è tanto necessario a una verosimiglianza del racconto né è necessario il suo ruolo “fisico” (un uomo, una donna, una moglie, un amico immaginario), ma diventa importante, alla stregua del ritornare di un preciso fonema, perché l’intera poesia possa portare a galla precise sensazioni in chi la legge. Nel verso che citavi, ad esempio, quel “In questo momento so esattamente chi sei” non si riferisce in realtà all’altro, anzi: non si riferisce affatto; la ragione di quel verso sta esclusivamente nel preparare a ciò che segue, ossia l’identificazione dello sguardo del poeta con quello della sua generazione: mi serviva un altro cui dire che siamo in tanti quelli che, bambini o adolescenti, abbiamo negli occhi i baleni a illuminare di guerra le notti irachene, e siamo quelli stessi tanti che siamo scesi in piazza, abbiamo manifestato coi “target” sul petto, contro un’altra guerra, contro la guerra di nuovo in Europa, contro i nazionalismi, contro il balbettio delle Nazioni Unite e contro il protagonismo della NATO, contro l’uranio impoverito rovesciato su quelle terre e quelle terre erano a una spanna da noi. Io la sento tutta l’eredità dei lutti passati, potrei partire addirittura dai martiri di Otranto. Sono stato a Dachau e le emozioni provate in quel posto sono irripetibili, e film come “Apocalypse now” o “Platoon” o “Full metal jacket” fanno parte del mio pantheon; ma la Seconda Guerra Mondiale è stata la guerra dei miei nonni e il Vietnam lo è stata per i miei genitori. La guerra della mia generazione è stata indubbiamente quella jugoslava.
Ecco, il ruolo in quei versi “dell’altro” è proprio quello di dare questo senso, il senso di un viaggio fatto nei luoghi del conflitto che ha segnato non solo me ma tutta la mia generazione.
Quando in un altro testo della raccolta scrivo: “Ti cerco nello sguardo un segno / del mio stesso smarrimento o l’avanguardia / di un sentire non ancora collaudato”, quel “tu” assume un ruolo diverso: è quell’istintivo chiedere conferma a chi ci è attorno, che vien fuori di fronte a una cosa nuova, un “ma a te è mai successo che…?”. In quei versi quello che volevo comunicare è che la straordinarietà (perché ciò che si vede nel Parco Nazionale dei Laghi di Plitvice ha davvero qualcosa di straordinario) della natura in cui ero immerso era proprio una di quelle che ti fa chiedere spontaneamente a “l’altro”: “avevi visto mai qualcosa del genere?”.
Questo è il “tu” che si incontra in “Quaderno croato”: una sorta di specchio inclinato diversamente secondo la necessità generativa della sua presenza. Saprò di aver fatto una buona poesia se, chi la leggerà, penserà, di fronte a un “tu”, che io possa riferirmi addirittura a lui/lei, perché potrebbe essere che, in qualche verso, sia proprio il lettore quel “tu”.
Nel tuo viaggio segnato dallo stupore, verso la fine arrivi a Spalato/Split, alla quale (come per ogni luogo) dedichi due poesie, una col nome italiano e una col nome croato. Sono due testi importanti nell’economia della tua narrazione. Descrivi un luogo, ma al tempo stesso, soprattutto nel pezzo col titolo croato, è l’emozione che prende il sopravvento. C’è una netta, forte illusione di felicità (felici di netto/in questo plagio impreciso e continuò degli sguardi/ capaci da qui di provare a richiamare l’umanità intera”). Arrivati qua, è come se il mare, la vita, si faccia sentire più impetuosa. Una sorta di preparazione prima delle ultime due tappe, che chiuderanno il percorso. Cosa accade a Spalato, cosa ci racconta Split?
Parto dalla domanda finale, prima di riprendere le considerazioni che l’anticipa; e vorrei ricollegarlo al concetto di “senso di stupore” di cui mi chiedevi prima. Cosa succede a Spalato, mi chiedi. Le tappe del viaggio che precedono Spalato sono, o segnate da una “personalità naturalistica” – Laghi di Plivice, Isole Incoronate -, o per una caratterizzazione croata nell’essenza e veneziana nelle architetture – Sibenico, Traù -. Spalato è tutt’altra cosa. Spalato è Roma. Anzi, ci sono angoli di Spalato nei quali uno come me, che ha vissuto undici anni nella città eterna, si chiedeva se passeggiando per i fori romani si sia sentito altrettanto dentro l’idea stessa di Roma. L’intero centro storico di Spalato coincide con il palazzo che Diocleziano fece costruire alla fine del III secolo per il suo buen retiro. E ti sembra di essere a Cinecittà, dentro una realtà virtuale. Fino ad arrivare all’indigestione che ti fa vedere la sovrastruttura di finzione alla reale presenza della pietra. Ti aggiungo un aneddoto che esula dal senso della raccolta: ho affrontato questo viaggio in macchina; l’unico momento in cui ho avuto problemi col traffico croato è stato entrando a Spalato. Il mio arrivo in quella città coincise casualmente con una partita dell’Hajduk, Mi ritrovai nella kasbah di auto e scooter sbandieranti che si dirigevano a clacson spiegati verso lo stadio. Fu straniante tutta quella normalità. Quello scombussolamento che – per riprendere una risposta precedente – fa dire, rivolgendosi a se stesso o a un reale compagno di viaggio: “io cerco mosaici e roghi nella villa fortificata / tu un punto sulla mappa / hai cerchiato tre volte e dici / vuoi vedere com’è fatta una torbiera”. In quel momento, in quella città, capisci che il viaggio può prendere qualsiasi inaspettata direzione.
Vanni Schiavoni
Il tuo racconto termina a Drubrovnik, titolo del dodicesimo e ultimo testo, che parte subito con una dichiarazione: “La devastazione è stata rimessa a posto”. È l’ultimo giorno del viaggio, e si ha come la certezza che l’attesa di qualcosa cominci adesso, magari proprio nello “spiazzo spoglio dell’Assunzione”, quando il giorno si rovescia e puoi dire che quello “è il punto focale, è raccogliere tutto”. Un finale molto suggestivo, con una sua forza narrativa rara. Cosa puoi dirci su questo punto che lì, in quel luogo, hai scoperto?
Cercherò di articolare la risposta attraverso piani ben definiti e separati di suggestione, perché diverse sono quelle che riesci a incastonare in una sola domanda.
La prima di queste riguarda il richiamo al punto laddove dico: “La devastazione è stata rimessa a posto”. Faccio una piccola digressione: sono stato in Argentina nel 2005. Erano passati quattro anni dal crack dei bond e il default del paese. Ho visto tutto, dalle baraccopoli che circondano Buenos Aires alle suites di Recoleta, e ti posso dire che era impossibile non accorgersi di come i segni di ciò che era successo fossero tanto più profondi quanto più si scendeva nella scala sociale. Sembrava davvero che a Recoleta non fosse arrivato neppure il frastuono del cacerolazo.
La realtà, mi sembrava di cogliere in terra argentina, è poi sempre così, come già avvertiva Brecht: “La guerra che verrà / non è la prima. Prima / ci sono state altre guerre. / Alla fine dell’ultima / c’erano vincitori e vinti. / Fra i vinti la povera gente / faceva la fame. Fra i vincitori / faceva la fame la povera gente egualmente”. Così mi sembrava di cogliere in quei luoghi croati, rimessi in piedi, con orgoglio e appartenenza, con la comprensibile fierezza di aver saputo resistere, ed io lì che guardavo le croci nei loro camposanti e non riuscivo a restituire loro che congratulazioni di facciata. Inoltre mi tocca di fare i conti con la perdita di equilibrio cui mi esponeva il trovare assurdo festeggiare un luttuoso senso nazionalistico nel mezzo di un viaggio che si stava delineando per me come dedicato al “culto delle radici”.
La seconda suggestione me la dà il tuo dichiararti toccato dalla sensazione che qualcosa stia per cominciare proprio dall’ultima poesia. In realtà credo che sia una delle sensazioni più oneste di tutto il libro. Come ti dicevo rispondendo alla tua prima domanda, non avevo nessun moleskine con me all’inizio del viaggio, non cercavo ispirazione. Ma forse proprio in quell’ultimissima tappa, quello “spiazzo spoglio”, ho sentito che l’ispirazione avesse trovato me. Come se in quel preciso punto si fosse chiuso il viaggio e fosse iniziato il libro.
Altra suggestione: il riferimento fisico/geografico a quello che è lo spiazzo dell’assunzione. È stato, per pura casualità, la tappa finale di quel viaggio; e mi ha colpito perché, in discontinuità con una certa attenzione ad abbellire (ritorna la “devastazione […] rimessa a posto), ci si trovasse dinanzi a questa cattedrale che fonda le sue radici nel VII secolo, chiesa madre di Dubrovnik, con di fronte una piazza che in quel giorno, in quel momento, mi parve estremamente spoglia. Come a dirci arresi entrambi a entrambi. Come a spingermi a scarnificare.
L’ultima suggestione riguarda il tuo aver fatto riferimento al primo capoverso dell’ultima poesia. Mi ci soffermo perché mi dà la possibilità di poter lasciare qui una piccola dichiarazione di quale sia il mio “credo poetico”. Tu mi segnali il primo capoverso, io ti segnalo di rimando l’ultimo, il capoverso finale dell’ultima poesia, quello che chiude il libro. Dice così: “L’ultimo giorno in questa parte di Croazia”. Il fatto che il capoverso che apre il libro (e che richiamavi in una tua domanda precedente) e il capoverso che lo chiude inizino analogamente (“Il primo giorno precipita…”, “L’ultimo giorno in questa..”) non è una casualità o un divertissement del destino, ma la scelta ponderata e convinta del poeta che accetta, da un lato la sfida che la poesia pone, dall’altro l’occasione che la poesia concede: seppure – ed è la norma – il lettore non si accorgerà di questo rimando, se la poesia è fatta bene (e non dico lo sia la mia), il poeta sa di poter lavorare su piani ulteriori oltre quelli consci a chi legge. Per cui, coloro i quali leggeranno “Quaderno croato”, nella maggiorn parte dei casi non si accorgeranno del richiamo del primo con l’ultimo capoverso, ma spero (vorrà dire che avrò fatto un buon lavoro) che qualcosa in loro riecheggi, come sentimento o sensazione, come la chiusura di un cerchio.