Su Limina Mundi Deborah Mega recensisce Eliodoro di Mario Fresa.
“Eliodoro”, i “Quadri di un’esposizione” di Mario Fresa
Sconvolge, spiazza, incuriosisce, diverte, questo Eliodoro, originalissimo romanzo di Mario Fresa, appena pubblicato negli Specchi Mercuriali di Fallone Editore. Fin dalla prima lettura, con il suo susseguirsi di immagini sempre diverse e variegate, con il fantasmagorico avvicendarsi di figure, colori, suoni, ricorda la celebre suite di Musorgskij, in cui i brani sono ispirati a quadri e al movimento dell’osservatore che si sposta da una tela all’altra. È un libro caleidoscopico, da leggere con distacco e meraviglia in cui la complessità del reale è trattata attraverso una fitta serie di libere associazioni. Non si è ancora conclusa una rappresentazione, un percorso, la caratterizzazione di un personaggio, che già si introduce un’altra suggestione iconografica che soddisfa archetipi come il mondo dell’infanzia, della fiaba, il grottesco e il macabro. Come nei Quadri, il tema dominante è ricco di variazioni ed elaborazioni continue e funge da elemento di coesione in una rappresentazione basata sul contrasto di personaggi e azioni eppure tutt’altro che episodica. Ma procediamo con ordine. Partiamo dal dire ciò che Eliodoro non è. Non è un romanzo consueto o prevedibile, una delle innumerevoli narrazioni che costellano il panorama editoriale degli ultimi anni. Devo ammettere che conoscendo la scrittura e la cifra stilistica di Fresa in poesia, un po’ me l’aspettavo. Sapevo che il suo Eliodoro non sarebbe stato un romanzo prevedibile. Eliodoro è “un romanzo-gioco” di pannelli e di schegge movibili che possono essere letti in successione o in modo più rapsodico […]”. L’autore fornisce perfino note e indicazioni utili per la lettura, una sorta di bugiardino per il paziente-lettore, affinché ne “assuma” la lettura rispettando la corretta posologia o anche la tolleri “pazientemente”. Si tratta di una composizione stravagante in cui è evidente l’eterogeneità della narrazione ma in cui è comunque ravvisabile la dipendenza dai canoni tradizionali come emerge dalla citazione conclusiva, tratta dal congedo della canzone 146 del Rerum vulgarium fragmenta di Petrarca, una delle liriche più note della poesia italiana delle origini ma anche da citazioni riconoscibilissime come le dannunziane coccole aulenti e tante altre a cui il lettore si aggrappa alla ricerca disperata di una trama a cui appigliarsi ma che non esiste, nel senso classico del termine, mentre le riflessioni multiple e parallele costruiscono immagini che mutano in modo variabile e imprevedibile a ogni movimento. Non è un libro da leggere tutto d’un fiato, dicevo, non a caso, tra i suggerimenti del bugiardino, Fresa invita ad utilizzare un segnalibro perché il lettore potrebbe sentire la necessità di rileggere le pagine più di una volta. E questo è vero: la rilettura apre orizzonti di senso. L’incipit colloca il lettore in un’atmosfera rarefatta e sospesa in cui è evidente la compartecipazione ironica e a volte amara dell’autore per il proprio protagonista e per le sue disavventure. Il cavaliere Magonza ricorda il Don Chisciotte di Cervantes, in entrambe le figure, le meravigliose utopie della letteratura si scontrano con la durezza della vita. Lo studioso russo Michail Bachtin ha evidenziato le principali novità del romanzo moderno a cui è possibile ricondurre anche l’opera di Fresa, la dinamica temporale appartiene alla categoria della contemporaneità, tempo non concluso, in continuo divenire, propone il racconto di un’esperienza individuale, ha un’impostazione soggettiva che tende ad approfondire la psicologia dei personaggi descritti. Bachtin definisce il romanzo un genere dialogico perché accoglie diverse visioni del mondo, quella dei vari personaggi e dello stesso autore. Questo comporta precise conseguenze sul piano stilistico: il romanzo si caratterizza per il plurilinguismo, è una forma aperta che si serve delle proprietà demistificanti del riso, strumento di rovesciamento degli stilemi e dei valori ideologici offerti dalla tradizione. Nel caso di Eliodoro il romanzo è psicologico, polifonico, corale, in esso vi interagiscono tante coscienze indipendenti, portatrici ciascuna di una propria visione del mondo, che interagiscono in un dialogo privo di esito finale. Nessuna, tra l’altro, prende il sopravvento o rivela, in nessun caso, la posizione dell’autore. In Eliodoro il deragliamento del lessico e della sintassi tradizionale è assicurato, Fresa indulge nella inconsueta tendenza ad associare due nomi e ad invertire la posizione di nomi e aggettivi, ecco dunque che la madre di Magonza è una grossa donna-dattero, Eliodoro e Luisa si scambiano un bacio nell’auto-pianoforte (un Bösendorfer più che uno Steinway), si badi bene, oltre a espressioni come le rosse mosche, la piccina suocera mosca, gli amici, un po’ acufeni, un po’ vermi, gli insetti giornalisti, un sapiente cane, i muti parroci, le diaboliche spade, i pazienti familiari, il cane cappellano, i mostri bambini, l’ospite ragazza, i topi-cittadini. Lo stesso terapeuta di Eliodoro è un ambiguo angelo misto: un po’ buono un po’ dottore, che prima di diventare terapeuta era stato un “Elefante ragazzo”. Tutto ricorda Eliodoro sotto ipnosi e denuncia nel suo flusso di coscienza nel quale si fondono realtà e immaginazione, coscienza e inconscio, eliminata ogni barriera tra la percezione reale delle cose e la rielaborazione mentale. Il mago Eliodoro diventerà insensibile fino a divorare i suoi figli (Crono?), ricorda la prima supplenza di sua madre, i sorrisi-temporale dei padroni risentiti, le mosche segretarie, il bidello-guardiano, il taverniere mostro, il vento figliolo e poi le sue donne amate, sognate o evocate (Luisa, Clara, Ester, Vanitosa). Oltre a riferimenti frequenti a dipinti della Storia dell’Arte, il lessico è spesso specialistico della musica, il gatto dal passo mahleriano, l’operistica sprezzatura, la mezzavoce di Giovanna, il Loggione, il liuto barocco, il giro di Suite, la cui struttura è proprio menzionata (allemanda, corrente, sarabanda, giga), gli acuti virtuosismi, i Lieder, le acciaccature, ma anche specifico della scuola con i suoi permessi retribuiti, le ratifiche finali, l’Aula Magna, il tema argomentativo, le competenze, il registro, la circolare ministeriale, il disturbo oppositivo, le note disciplinari. Oltre a memorie scolastiche e ad aneddoti attinti alla carriera scolastica dell’autore da discente prima e da docente in seguito, si aggiungono pagine tratte da una sorta di diario pediatrico, con annotazioni relative all’accrescimento, alla deambulazione, al linguaggio di Luisa. È un labirinto letterario in cui Fresa ci introduce, fingendo crudelmente di fornirci delle chiavi di lettura che facilitino la comprensione e l’orientamento (informazioni, note, bugiardino, riferimenti, indicazioni), mentre in realtà ci lascia sprovvisti di una via d’uscita. Per non parlare di tutti quei costrutti lessicali come guardanti respiranti, sterminare sterminerà, conservare, conserverà, votare votano che ricordano anche il linguaggio tipico delle fiabe. I personaggi, raccontati con bonaria ironia da Fresa, fanno sorridere e allo stesso tempo riflettere, sono emblematici ma rispecchiano la varietà del mondo, un’umanità multiforme che si dilata attraverso il racconto. La capacità affabulatoria di Fresa è implacabile, incalzante, stordisce tanto è inverosimile e surreale la rappresentazione degli eventi che l’autore sottomette alla sua volontà, al gioco di specchi, al citazionismo enciclopedico di titoli, di incipit, di formule letterarie celebri. Allo stesso tempo avviene il recupero di strategie narrative come la falsa enunciazione, la destrutturazione logica e temporale, il suggerimento su come leggere un’espressione (neanche ci si trovasse a teatro e si dovessero seguire le indicazioni di un Fresa regista). In fin dei conti, le riflessioni di Eliodoro sulla malattia, sulla vita e sulla morte sono universali e condivise, Le malattie sono i nostri amori più duraturi: sono da custodire dentro di noi, come il fiabesco ricordo del primo rapporto completo…Perché si è schiavi dei morti?… Perché ogni fine è a portata di mano, proprio così, con assoluta naturalezza, senza che tu lo sappia… Ecco dunque che la polifonia di Eliodoro, dietro l’apparente divertissement, esprime il comune senso di precarietà e di provvisorietà delle certezze, il desiderio di un volo senza volo, di una sparizione senza tanto clamore, nonché la negazione di ogni prospettiva fissa e totalizzante.
Deborah Mega