Su RPLibri: recensione a Drammaturgia degli invissuti a cura di Francesco Impronta

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni…” Quest’affermazione di Italo Calvino (cfr. Le città invisibili) possiede un’indiscutibile verità e la lettura di Drammaturgia degli invissuti, di Giuseppe Cristaldi e Oliviero Malaspina (Fallone editore, 12,75€) lo conferma in maniera inoppugnabile.
Si tratta di un contrappunto musicale, come direbbe un musicologo, o meglio ancora di una corrispondenza amebea, di un canto a due voci, antico come il mondo da cui traspaiono la sofferenza, la solitudine e la disperazione di chi, relegato ai margini dell’esistenza, non ha mai vissuto.
Il libro di 93 pagine strutturalmente si divide in 18 sezioni, in cui si confrontano su uno stesso tema i due autori, utilizzando stile e veste grafica diversi: Malaspina per la sua scrittura più allusiva ed evocativa, spesso decisamente poetica, ricorre al corsivo e Cristaldi che affonda il bisturi nella carne viva e palpitante di chi soffre usa il carattere tondo. Entrambi sono animati da uno sdegno sincero, l’indignatio non del moralista ma dell’uomo intellettualmente onesto, nei confronti delle discriminazioni, delle ingiustizie e delle prevaricazioni presenti nella nostra società. Entrambi appartengono a quella tradizione di militanza politica che ha avuto i suoi ultimi e più degni rappresentanti in Pier Paolo Pasolini, Franco Fortini e attualmente in Gianluca Paciucci (cfr. Rictus delle verità sociali). E non diversamente dalle opere di costoro anche Drammaturgia degli invissuti è permeata da una passione profonda e da una straordinaria lucidità in cui coesistono istanze solo in apparenza contrapposte: cronaca e storia, natura e cultura, etica ed estetica.
L’intento dei due autori non è solo quello di denunciare situazioni di vita degradata, ai limiti quasi della sopravvivenza, se non addirittura bestiale ma anche di dare voce a chi non ne ha mai avuta sia egli un tossicodipendente, un malato terminale di tumore per esalazioni di rifiuti tossici o di sostanze cancerogene, come l’amianto o la plastica; un immigrato clandestino sbattuto qua e là come carne da macello o meglio merce avariata, una ragazza stuprata dal padre, venduta ad un pappone e costretta a battere. Le dramatis personae (non a caso si tratta di una drammaturgia) non solo non hanno voce ma spesso neppure un nome, hanno però un unico volto quello della sofferenza e della desolazione; penso al vecchietto, ormai disperatamente solo, in un paese, Castro, dove “d’inverno la frusta della salsedine ti spacca il viso […] e si piega in due dal dolore pure la luna” che dopo la morte della moglie si attacca al televisore e poi alla stufa, la cui sparizione affranto denuncia in caserma all’appuntato dei carabinieri.
Sullo sfondo c’è anche la contrapposizione tra Sud e Nord ma senza accenti particolarmente polemici, perché la sofferenza è la stessa dovunque e rifugge da connotazioni regionalistiche o campanilistiche, a parte il fatto che nel Salento “l’inverno non si paga e le nuvole non sono di metallo”, mentre a Torino il sole non s’impiglia nelle pale di fichi d’India e Venere è una catena di montaggio. Nella quinta sezione, il cui titolo, Se una notte d’inverno un disgraziato, conferma come nelle corde degli autori ci sia pure il Calvino che durante il soggiorno parigino aveva aderito all’OuLiPo, il protagonista è un giovane impasticcato, paranoico che si sente braccato dai suoi stessi fantasmi che si moltiplicano come ratti e s’infilano dappertutto. Novello Don Chisciotte, armato di bastone, ingaggia la sua battaglia contro le proprie paure distruggendo tutto ciò che lo circonda, gli specchi della casa e i sedili della sua automobile prima di morire in una pineta con un involucro di estasi conficcato nel cavo orale.
Tutti questi personaggi, che hanno deposto anche la rabbia, in quanto, come dice Pasolini, è un’emozione che non può durare a lungo, e che si macerano continuamente in un odio impotente verso il mondo e verso sé stessi, sono per rimanere nella metafora iniziale i dannati della terra, spogliati della dignità, della speranza, e persino del desiderio, non meraviglia, quindi, che molti di loro scelgano la strada del suicidio.
Giuseppe Cristaldi e Oliviero Malaspina con Drammaturgia degli invissuti hanno registrato senza enfasi, con puntualità e precisione, questa situazione sempre più generalizzata e allarmante, ma il valore del libro non è solo nella denuncia, che pure ha una sua indiscutibile forza dirompente, ma anche nella pasta sonora, musicale del testo, e in questo credo che abbia giocato un ruolo fondamentale la formazione musicale di Oliviero Malaspina, penso alla lunga e proficua collaborazione con Fabrizio De André. Un testo oltretutto impreziosito da una ricca strumentazione retorica e sorretto da una lingua concreta ed evocativa al tempo stesso, che accosta sapientemente e spesso fonde, in Cristaldi, l’italiano al dialetto salentino, a testimonianza di un’appartenenza viscerale al profondo Sud e di un sentire profondo e condiviso, capace di trasmettere valenze, significati e implicazioni anche laddove si ricorre al dialetto più stretto. Una lingua varia ma efficace, ora affilata e tagliente come un bisturi ora leggera e sognante come un chiaro di luna.
Per concludere: un libro da leggere assolutamente che ti toglie il respiro come un pugno bene assestato alla bocca dello stomaco ma ti costringe ad aprire gli occhi dinanzi a situazioni volutamente dimenticate o censurate da una classe politica miope e incapace e da un’opinione pubblica spesso addormentata.