Su Il rifugio dell’Ircocervo la recensione di Breviario delle aberrazione di Michele Paladino a firma di Vittorio Parpaglioni.
In questo 2021, per la casa editrice Fallone Editore, è uscita l’opera prima di Michele Paladino, poeta nato nel 1993 a Termoli, in Molise. Breviario delle aberrazioni non è un libro per chiunque. La scrittura di Paladino è quella del poeta che sa maneggiare alla perfezione lo strumento della lingua: riesce a scavarne i suoni e i significati, i termini nascosti. E così come viene approfondita la ricerca del linguaggio (la quale appare quasi originaria e non smossa dal contemporaneo), allo stesso modo ci si cala nella profondità di un’anima, quella del poeta stesso. Non a caso si dice che colui che ha maggiore conoscenza dello strumento linguistico sia anche colui che più facilmente riesce a comprendere meglio le vibrazioni del proprio essere.
In questa prospettiva sarebbe semplice cadere nel paradosso temporale – perché sì, durante una prima lettura Paladino sembra un poeta novecentesco, troppo legato a una tradizione, ma questo sarebbe un pregiudizio. Ci si potrebbe chiedere molto semplicisticamente chi sia (o da dove proviene), ma questo, anche, sarebbe un altro pregiudizio. Con la pazienza della lettura, invece, ciò che rimane dopo aver posato il libro e avere lasciato che le composizioni venissero assimilate, è una sensibilità forse unica nel panorama contemporaneo italiano.
La sezione che chiude il libro – L’oro dei retabili – è una citazione di diversi pittori della storia dell’arte europea. La scrittura di Paladino è di per sé, nei casi migliori, una costruzione d’immagini degna di un notevole pittore. In qualche modo queste immagini possono essere definiti naturali. Non perché “esistono in natura” o perché fuoriescano da una conoscenza già scritta, tuttalpiù perché sono costruite con straordinaria precisione da un piano inconscio e segreto, ed esposte con ordine e nettezza.
La ricerca di Paladino, appena iniziata per noi suoi lettori “pubblici”, posa le radici sull’essere e la sua solitudine. Attraversa varii stati per poi terminare appunto nell’aberrazione. Ma non credo che in questo caso sia tanto importante soffermarsi sul messaggio tramandato, poiché come in ogni libro di poesie che si rispetti il messaggio è molteplice e tocca dei punti dell’intimità di ognuno in maniera soggettiva e diversa.
La particolarità di questo libro, paradossale se si parla di raccolte poetiche in generale, è il raggiungimento della poesia stessa. Paladino ha già una voce potente; ha già una forma acquisita che rende la lettura enigmatica un pezzo di valore, proprio per il motivo sopracitato. Le poesie di Paladino sono intrise di visione e dolore. Non è un dolore fine a se stesso. E nemmeno isolato come un lamento. È piuttosto l’accettazione. L’ammissione a se stessi di non essere in grado di comprendere ma solo di guardare.
Nella lettura è infatti percepibile un sentimento forse romantico, sicuramente vero, di distacco tra uomo e natura, di osservazione inesorabile e inevitabile. Di posizione esterna rispetto alle cose della natura ma anche di vorticoso trascinamento da parte di questa nei confronti dell’uomo. Queste sensazioni (aberranti, alla fine) sono parte di ciò che è possibile sentire nell’esordio di Paladino.
La poesia di Paladino è matura, ha già raggiunto una complessità formale non indifferente.
È anche vero, però, che sarebbe curioso potere vedere la sua evoluzione in un prossimo libro; così come un’evoluzione dello schema perfettamente costruito che ha dettato la scrittura dell’esordio; come il distacco dalla certezza di scrivere bene e l’allontanamento da una “comfort zone” che potrebbe, alla lunga, tarpare la potenza creativa di questo poeta molisano.
Canova
Naviga perverso il desiderio,
è una fase d’eclissi;
d’estasi è il mistero
della carne liberata.
Vittorio Parpaglioni