Su Pangea una lettera su poesia e salvezza di Vincenzo Gambardella a Mattia Tarantino.
“Ogni nome è trasparente”. Lettera a Mattia Tarantino su poesia e salvezza
Caro Mattia Tarantino,
il tuo poema è impregnato di liquido amniotico, e tu ci nuoti dentro, sicuro, appena un soffio sul filo dell’acqua per riprendere fiato, poi ancora ritmo e ritmo di bracciate in forma di prosa lirica, sommamente espressiva, incrociando metafore e similitudini, analogie, allegorie cantabili, scorci di immagini bibliche, personaggi obliqui, caratterizzati solo da un particolare, rime interne, ritmi incalzanti, per vincere il mondo, dico io, per farlo proprio, anche se non sarà mai nostro. Ma! mi piace ricordare (non so come mi è venuto in mente) il film di Orson Wells “Quarto potere” (titolo originale “Citizen Kane”, 1941), in cui il magnate della stampa Charles Foster Kane, dice a un giornalista, al telefono, di mandargli il poema che ha scritto, di mandarglielo lo stesso, visto che lì dove si trova, in chissà quale paese sperduto, non succede un fico secco, nessuno sconvolgimento in corso, nessuna rivoluzione di massa, e quindi non c’è niente da raccontare… Dunque, prima la poesia del mondo, prima viene la poesia e poi il mondo, giacché la poesia è mondo, e per la cronaca ci penserà Kane a inventare qualcosa (siamo già a questo!).
Scena memorabile, che si addice al tuo ispirato canto, il fatto che non impasta delitto a vita quotidiana (tu vivi in una città di camorra, te l’ho sentito dire in un’intervista-video), ma offre vertiginosa poesia. Prima quella, e prima il principio, l’inizio, la forma misteriosa di ciò che ci ha voluto. Evviva! Scusami se sono così esplicito, non ci conosciamo nemmeno. Eppure chi ascolta (mi correggo: chi legge, ma volevo dire chi ascolta) è continuamente generato dalle tue parole. Più che una favola, come sembrerebbe, è un grido e un ossario il tuo libro, in quanto nascita e morte convergono, un giorno sapremo in quale unità, ce lo diranno le cose, l’evidenza in cui sussiste il mondo di qua, che è in estremo legame col mondo di là, ma in sovrappiù di dono e punti di fuga non ancora svelati. È questo che tende a significare “Se giuri sull’arca” (Fallone Editore, 2024, accompagnato dalla strepitosa, pienamente coinvolta prefazione di Michelangelo Zizzi). La nascita o rinascita che ci tocca – saremo o siamo già per essere –, è un mondo infinitamente amato, non come vogliamo noi. Se l’arca ci conduce, ci porta dove vuole, ci destina a compiere l’esperienza che ci segna per sempre, in totalità, in buio, in luce; in buio e luce concentrati talmente da rivelarsi sintesi suprema del rappresentato creato, già reale, trasceso dalla sorgente del vero, e poi immaginato, ricreato di nuovo dal suo ventre. Soggetto: noi, la meraviglia, o il soggetto che libera la fantasia del poeta.
Sono sicuro che tremi quando scrivi, se tremi hai verità ricevuta di quello che stai facendo. Lo dico perché il tuo mondo è tutto inconscio che preme per rivelarsi, per diventare forma. C’è rimasto solo l’io a fare questo! L’angelo stesso è forma, il punto esatto in cui accade, scocca la sua parola e la sua immagine, si sposa con l’arca. “Siate gli angeli, siate la procedura” (p. 63), lo dice una bocca che parla dal sottomondo, simile a un’abrasione, e viene detta cosa da salvare. È ossessione?, non direi. Qui, chiunque sarà tralasciato conoscerà meglio il bene, persino nella violenza, nella rovina. In quanto tutto è trasceso, originario, ma la forma presenta una mobilità, o una dinamica moderna, futura, fortemente in divenire. Niente è fermo. Sì, l’immagine dell’arca viaggia nelle nostre menti fino a quando l’angelo decide. La morte c’è sempre, la fatica di dire pure, per via del linguaggio abissale adottato (“Parlano, ma come gli uccelli, un dialetto celeste”, p. 37), pieno di squarci, che si perde e si ritrova in continuazione, pegno lo sfinimento, in atto di chiedere, chiedere di continuo. Il senso di queste domande lo conosciamo, è antico e nobile: la morte, il sogno, il destino, lo scalpitare della vita, e poi che altro se abbiamo fame di tutto? A cominciare dal primo e prevalente quesito: chi sono io per dire?, di che carne sono fatto? (intendo: posso dirmi sicuro di essere ascoltato?). E si compie un cerchio delineato da una corda, i cui due estremi sono quelli del nascere e del morire, immaginandoli in spasmodica richiesta generativa, giacché già la morte è essere buttati fuori, come la vita, in un altrove.
“Se giuri sull’arca” è un libro che vuole nascere, affidando alla scrittura la propria umanità. Paradossale è l’intento: come si può partorirsi in oggetto? Ma è il regno della letteratura, o dell’immaginazione, che agisce, il suo orizzonte accoglie ogni pretesa, meglio direi domanda. E possiamo parlare di preghiera, secondo l’aneddotica di Flannery O’Connor che chiedeva a Dio di diventare famosa, affinché la sua opera restasse, fosse conosciuta. Che libertà! In questo senso “Se giuri sull’arca” promette di restare, promette che sarà amato, sul modello medievale di Corradino di Svevia, che calca il patibolo di Piazza Mercato, a Napoli, ad appena sedici anni, il 29 ottobre 1268, togliendosi un guanto e scagliandolo contro la folla, per sfidarla, per dirle che un giorno sarà adorato. E il popolo lo amerà, e per sempre, proteggendo le spoglie del giovane re poeta dai nazisti, i quali volevano impossessarsene, e che tuttora sono conservate nella chiesa di Santa Maria del Carmine, a due passi dal luogo dove il giovane fu decapitato.
Perciò il libro è l’arca a cui giurare tutto sé stesso, su cui salire purgatorialmente, per affrontare la salvezza, e puntare l’intera propria esistenza sulla letteratura, sulla forza destinata a raccontare, innalzando palchi di umanità lì dove s’è abbattuta la fine, lì dove è marcita e vegeta la vergogna. Siamo fatti così, speriamo, la parola speranza non può essere cancellata, perché è parola ancora viva in noi, e sta nel maestoso corpo dell’arca, che è in miniatura il tuo libro, capace di traghettare il verbo della propria dimora corporea all’io di tutti. Solenne e nuovo naufragio del Deutschland, per poeti in disparte, per dire la meraviglia del soggetto. Poema che arricchisce e amplifica la tradizione poetica antica, allarga i confini del dettato, operando in eccedenza su esso, e trascendendo il mirabile senso. Peso gravoso e leggero per sua natura. Poema che s’aggiunge al reale, poesia che s’arrende all’irreale. Lo sforzo del poeta è sempre più teso. È dunque un baluardo la poesia, un’arca a cui affidarsi, eroicamente, e da lì esprimere ciò in cui crediamo. Crediamo nella bellezza e nel valore della parola. “How with this rage can beauty hold a plea?” (come potrà la bellezza confrontarsi con tanta furia?), Shakespeare.
“Se ce lo chiedete non ve lo diciamo” (p. 21). All’inizio ci troviamo di fronte alla negazione, sebbene la didascalia fra parentesi (si tratta di una voce) indica: canzonando. Poi, saltando la seconda voce e andando alla terza si legge: imparare a parlare con le ombre. E ritorna la prima voce che ribadisce: “Non ve lo diciamo”. La terza voce ci informa che siamo alla fine del mondo, e capiamo il mistero che ci sovrasta e in cui siamo immersi, fatto di nero e di trasparenza. “Non è che non vogliamo”, dice la prima voce, perché la parola non dipende dal poeta, la parola viene ricevuta, e al massimo si sta ad ascoltare, o ad attendere che torni a dire, smuovendoci dal nostro nulla; il nulla che siamo, rispetto all’eterno, al tempo, alla natura, ai maestri che stanno a guardarci, imbalsamati nelle loro foto e ritratti dipinti, con gli occhi impassibili o scintillanti di follia, di fuoco, di guerra, di resistenza, di parole infinite sulle labbra, sognanti, sperdute, argini alla menzogna, parole nuove e ardite, o parole vecchie e consunte, ma consolanti, che ci rendono meno soli. Ecco i nomi che campeggiano: Eliot, Pound, Lautréamont, Rimbaud, Campana, Baudelaire, l’inferno-purgatorio della Commedia dantesca, rinfrancata dall’incontro di Arnaut Daniel, e aggiungerei i Surrealisti, allo scopo di rendere più confuso e incoerente l’elenco. Sono lì per carità, non per fama, insomma per fare compagnia. Forse sono loro stessi che parlano, per grazia, acquisizione o chissà che, comunque sono capaci di farlo, di dirci ancora, sebbene lontani, ma convocati in ombre evocatrici. Essi già in presenza di altro. Ma poi cosa devono dirci? La fine?, fine di tutto?, il sogno?, la realtà?, Dio?, l’angelo?, l’angelo in quanto supplente delle parole, mandante del poetico, del profetico? Travestito da suggeritore nella buca, o familiarmente in canottiera, al posto del conducente del mezzo nautico, che guida, ci fa da guida. E si parla di un orecchio gigante in cui bisbigliare, perché qui c’è solo da ascoltare, è tutto ascolto il poema, e non si vuol dire altro che questo. Parola che ci raggiunge dove siamo. Ma dove siamo? Sembra di essere in un teatro, il testo potrebbe essere un libretto d’opera, senza musica, musica da immaginare, oppure siamo convinti di entrare in un quadro di Bosch (l’orecchio gigante lo dimostra), e ci sono i mostri che stanno lì a tentarci, o ci parlano improvvisamente (anche loro!), prendono la parola pur essendo muti, dicono: “Poi siamo salpati” (p. 22). Finalmente si parte! Da questo momento in poi il poema ha una destinazione. Il libro, che è un’arca, viaggia, chi la guida appare trasfigurato. Creazione di un libro che è creazione del mondo, anzi, sua decreazione, alla maniera del pensiero di Simone Weil, che con quella parola (decreazione) sostiene il ritorno nel cuore di Dio, e noi ancora increati e pronti a nascere viaggiamo in quella rotta. La poesia è l’eroico oggetto di studio, direbbe Wallace Stevens, ecco perché nel poema di cui stiamo parlando, uno dei personaggi si chiama “L’ermeneuta”, cioè l’interprete dei testi, dei documenti, lo studioso. Giacché la poesia si vive e si studia per viverla, per conoscerla, non basta il sentimento, o l’emozione, o la passione, roba da pubblicità, e la poesia non si vende. Occorre uno sguardo superconcentrato per avvicinarla, in grado di trascendere tutto il reale, e vederlo, visionarietà pura, in modo da includere anche l’istinto, la pantera dantesca, il suo profumo metaforico, che ci consente di andare alla carne della verità poetica, la lingua, la sostanza affamata del vivere e del patire, non mortificati, non abbindolati dalla negazione, sebbene colta, autorevole, dirompente, ma autoreferenziale, e laboratoriale, o addirittura programmata per consenso. No! Ci serve, invece (abbiamo premura), di andare all’origine, meta a cui auspichiamo da sempre. In questo confida “Se giuri sull’arca”. Dio è morto, d’accordo, penso io, ma allora diteci quando è nato!, è quello che vorremmo sapere.
Ti vedo come in una vignetta satirica che stai al timone della tua arca, e poi ritengo che uno che scrive poesie a Napoli, in una città di camorra, vuole dire davvero, tentare davvero l’impossibile, in un universo non solo vasto, ma allo stesso tempo guasto, alterato. Mi associo a te per chiedere a questo mondo che in pace si convinca che l’uomo non è mai sconfitto, non serve negarlo, perché non può negarsi, in quanto fatto a misura divina, angelica, e comunque in continua lotta per affermarsi, prova è la sua lingua, il proprio segno di libertà, di avvento, di affetto e vicinanza con le cose, soprattutto con la salvezza, che deve sentirsi prossima, anche solo nel pensarla in privato, nell’intimo. “Perché l’acino, come l’Immagine, è nella sgranatura che assolve il suo mistero” (p. 25), e “C’è l’ombra di un regno promesso, una terra. La chiameremo Aphinar, ci chiamiamo Aphinar, come l’arca dei mondi, il coro delle polveri. Ogni nome è trasparente. Tutto il nome è trasparente. Preghiamo, ci accerchiano” (p. 32).
La poesia è tale proprio in quanto visione non ufficiale dell’esistere. E mi sembra che per te scrivere è uno scavo, un bulino che stride sulla lastra, sullo spessore di cera seccata, ma prima ancora nell’anima del mondo. Lo scavo che si opera deve passare per l’acido che aggredisce l’acquaforte della città malata, la sua stessa luce. Da qui l’immagine ripetuta della fosforescenza (“[…] un neon fosforescente, come santo”, p. 59), che ha lo scopo di accendere ogni riferimento perduto, far risaltare il legame, il legame che ci sta a cuore, la continuità della lingua, nonostante… Mi fermo, come il poema che quasi s’interrompe di colpo al XIII° capitolo, e sceglie una conclusione fra parentesi:
“(Prime luci. Il muco attorno alla voragine è incandescente. Bruciano, ancora, le ultime ossicine degli uccelli. Si sentono dei passi, le onde)”.
Vincenzo Gambardella