Martedì 6 Giugno 2023 – Su larosainpiu un ritratto della poesia di Diego Riccobene

Sulla rivista larosainpiu di Salvatore Sblando, Rosanna Frattaruolo propone un ritratto accurato della poesia di Diego Riccobene.

Diego Riccobene In poesia

DIEGO RICCOBENE DELLA POESIA DICE

Per “dire” di poesia dovrei tediare chi legge con questioni poste da incubi e succubi, cosa che d’altronde non è chiara a me neppure. Meglio di no: mi rifarò pertanto a quella che io ritengo essere una delle più giuste e a me più vicine concezioni di poesia espresse in letteratura, di Jorge Luis Borges per tutto il corso del suo racconto “Lo specchio e la maschera” (di cui qui un tratto della parte conclusiva; cito la traduzione per Adelphi di Ilide Carmignani).
«Negli anni della mia giovinezza» disse il re «ho navigato verso il tramonto. Su un’isola vidi levrieri d’argento che uccidevano cinghiali d’oro. Su un’altra ci nutrimmo col profumo delle mele magiche. Su un’altra ancora scorsi muraglie di fuoco. Sulla più lontana di tutte solcava il cielo un fiume a volta, sospeso in aria, e nelle sue acque c’erano pesci e navi. Queste sono meraviglie, ma non sono paragonabili al tuo poema, che in qualche modo le racchiude tutte. Con quale sortilegio l’hai avuto?».
«All’alba» disse il poeta «mi sono svegliato dicendo parole che all’inizio non capivo. Quelle parole sono un poema. Ho sentito di aver commesso un peccato, forse quello che lo spirito non perdona».

LA SUA POESIA CI DICE

Da Synagoga (Fallone editore, 2023)

V.

Le fatte mi si persero nel sonno,
quando fui vinto da un severo pallio
di vezzi carenati nell’unguento
che sparsi in sorte sui disfacimenti
del messaggero e degli oppressi santi.
Non vidi il topo uscire dalla bocca
strisciando tra gli stipiti in eggregora
né l’estuo della stessa incrinatura,
ma volgo armato in verghe d’umbellifera
marciare in fila a valle sopra lepri;
giacché quello era un sogno ed io supino
– guai a voltarmi, se qui intanto fossi
un implacato rio periclitante
ch’insorge vendicando lo stendardo:
ne perirei di colpo, e lui vagante,
lo spirito, a ribattere calanche
gocciando lezzi e pianti nell’attesa
di quella vera inferie, l’Increscente.

X.

Il segregato e il complice sicurano
che fuoco non si appicchi a masserizie
e nudi ci si epuri, come feccia
confermi verità di tanto scritto;
ne sconsacrava l’organo una pentola
con serque di miscugli, la novena
a grande oltraggio eretto, che si giudichi
di farla protrusione: voglio ammettere
lo sbaglio, ma nel furto non depongo,
vangando il rimasuglio delle torbide
che disconosco.

Inedita

Ero la lancia, la protesa spina
dal convolvolo al gambo, il sedimento
del deserto dettato che s’abbrucia
nella rota d’un lume fremebondo;
ero Longino nella sua postura
negletta, l’infecondo dell’argilla,
dopo l’atroce smacco del trascorso
sacerdozio, la schiuma d’oriente.
Ero quel sorcio – che si sappia e pianga –
il feto qui sottratto alla Sibilla,
ero la iod in frodolento manto
come l’avvolta Aracne, si racconta
supplice voce roga che si trasse,
e il subbio perdonò, non la Tritonia.
Ero l’inscritto termine, riparia
sul plauso crepitante all’ora nona
spingendo tra le costole la punta,
scolpita morte d’onice presunta.

DICONO DI LUI E DELLA SUA POESIA

Estratto dalla nota di Maria Laura Valente su Synagoga (pubblicata da Poesia del nostro tempo, il 18/01/2023) https://www.poesiadelnostrotempo.it/synagoga-di-diego-riccobene/
[…]
All’interno delle partizioni – esse stesse parimenti interpretabili come movimenti che, ontologicamente, scandiscono, senza soluzione di continuità, il tempo interiore del testo – i singoli frammenti poetici si dispongono, a guisa di formelle istoriate su portali sacri, come idealmente interconnessi e fieramente autarchici al contempo. Da ciascuno di essi e dalla loro sommatoria promana un’atmosfera rarefatta, permeata da un senso di arcana oscurità misteriosofica ed evocata da una liturgia della parola orante che pervade, come in un rito formulare, il dettato poetico.
A protezione del sancta sanctorum dell’opera, che ne racchiude l’essenza rituale e parasacrale, si eleva un’imponente architettura linguistica e stilistica, cui è sottesa un’inesausta opera di speleologia lessicografica e rielaborazione concettuale. In ciascun frammento, le scelte metriche sono improntate a una polimetria eufonicamente modulata, in cui s’intrecciano, in proporzione studiatamente variabile, dodecasillabi, endecasillabi, ottonari, settenari e quinari, la cui musicalità intrinseca è impreziosita da una sottile trama di figure di suono che ne amplifica le suggestioni fonetiche. Su tale corpo sonoro, si innesta il portato di una selezione lessicale di estremo rigore, improntata, attraverso soluzioni marcatamente arcaizzanti, alla formazione di un verderame linguistico, la cui percezione odierna, nel gioco dello shifting temporale, fa sì che la carica denotativa del linguaggio si trovi a deflagrare in forme marcatamente connotative.

Estratto dalla nota di lettura su Ballate nere (edito Italic, 2021) di Ianus Pravo, pubblicata su Atelier il 23/02/2023 https://www.atelierpoesia.it/diego-riccobene-ballate-nere-italic-2021-nota-di-ianus-pravo/
[…]
Vi è una leggerezza, una magrezza materiale nel segno barocco disperso sulla pagina di Diego Riccobene. È l’angelo terribile che mi sorride, il garrincha fulmineo ma goffo, il fulmine goffo del garrincha, il tremendo ci sorride. Il sorriso è un dolore consegnato all’oblio: si badi, non dimenticato, ma affidato alla custodia dell’oblio. Il sorriso è una temerarietà angelica. È una forma, cioè una maschera che strappa la faccia. Francis Bacon non dipinse mai un sorriso, dipinse il ghigno. Del resto, lo scriveva Baudelaire, riferendosi all’opera di Maturin, ‘Melmoth’, in ‘De l’essence du rire’: Il riso di Melmoth, che è l’espressione più alta dell’orgoglio, compie perpetuamente la sua funzione lacerando e bruciando le labbra di colui che ride irremissibilmente (e di qui, nell’Héautontimoroumenos: Io sono il Vampiro del mio cuore, / Uno dei grandi abbandonati / Al riso eterno condannati, / E che non possono più sorridere). Riccobene: e il ghigno sempre pronto a barattare / se stesso o qualcun altro.
Il sorriso-angelo dalle gambe storte, criptato nel riso e nel ghigno, nel demoniaco, percorre dal primo all’ultimo verso l’opera di Riccobene, ci sbircia spudorato dal forame. In Leopoldo María Panero: Così lo schiocco di mandibola del cosiddetto schizofrenico e il suo riso inspiegabile sono un atto cannibalistico come la poesia vorrebbe essere: un atto cannibalistico, un intervallo nella disperazione. Un anatema contro la cronica piattezza del sociale e del culturale contemporaneo, contro la miseria linguistica ed etica dell’attuale. Come scrive Riccobene: Sia fatta immondezzaio quest’altura, / sia imbratto per carogne, scellerati, / fondachi miserabili, mercanti.
Ho dichiarato il falso? Quello, certo, nella chiusura di Ballate nere. Garrincha fu un giocatore meraviglioso, un mago del gesto: la leggenda racconta che chiamasse ognuno dei suoi marcatori con il nome di Joao, tutti con lo stesso nome, tutti allo stesso modo beffati dalle sue finte. Le finte di un angelo.

DIEGO RICCOBENE E I POETI “INFLUENCER”

Se devo far riferimento a cosa sto leggendo attualmente, sono affascinato dalla poesia sumerico-accadica. In particolare, da alcune trasposizioni di poemi sumerici che trattano del matrimonio tra la dea Inanna e il dio Dumuzi, e di come quest’ultimo, dopo aver conquistato i favori dell’amata, sia perseguitato e rapito dai demoni inferi, nonostante il disperato tentativo di lei di preservarlo dalla morte.
Poi, oltre ai nomi che per definizione e canone rappresentano la poesia e che leggo abitualmente al fine di necessario diletto, mi limito a riportare qui alcuni percorsi che ho sentito affini: Alexander Blok, il suo dondolio ipnotizzante; Giovanni Camerana e Arrigo Boito, ambedue troppo poco ricordati, soprattutto il primo; Angelo Maria Ripellino, non c’è bisogno di dire perché; infine Algernon Charles Swinburne, la cui poesia mi ha sempre spezzato, fin giù nelle viscere: forma attigua alla levigatezza e un gusto sacrale vertiginoso. In merito a quest’ultimo nome, propongo qui di seguito una traduzione ad opera di Mario Praz di un paio di quartine (vv. 221-228) tratte dalla sua Laus Veneris; traduzione che trovo deliziosa, giustappunto.
[…]
That curl in touching you; right in this wise
My sword doth, seeming fire in mine own eyes,
Leaving all colours in them brown and red
And flecked with death; then the keen breaths like sighs,
The caught-up choked dry laughters following them,
When all the fighting face is grown a flame
For pleasure, and the pulse that stuns the ears,
And the heart’s gladness of the goodly game.
[…]

Immerge: tal mia spada nei suoi giri:
Foco sembra, e i colori, a chi la miri
Rossi, intrisi di morte, fa negli occhi;
E i mozzi fiati simili a sospiri
E tosto, il riso soffocato e roco,
Quando la faccia al feditore è un foco
Pel gaudio, e il polso che gli orecchi introna
E la gioia del cuor pel gentil gioco.

Questa volta è stato l’autore, che ringrazio, a regalare al pubblico di Larosainpiù il testo in lettura.


Diego Riccobene (Alba, 1981) vive in provincia di Cuneo. Laureato in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Torino, è poeta, docente, musicista.
Suoi scritti e interventi sono apparsi su antologie, webzine e riviste quali Atelier, Menabò, Poesia del Nostro Tempo, Critica Impura, Inverso, Versante Ripido, Laboratori Poesia, Pannunzio magazine, Neutopia, l’Estroverso, Limina Mundi.
Alcuni suoi componimenti sono stati tradotti in lingua spagnola dal Centro Cultural Tina Modotti.
Collabora con la redazione di Menabò online.
Ha pubblicato Ballate nere (Italic Pequod, 2021), silloge segnalata in occasione del Premio Lorenzo Montano 2022 – sezione opere edite; a questa fa seguito la plaquette Synagoga, (2023, Fallone Editore).

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