Mercoledì 18 Gennaio 2023 – Synagoga di Diego Riccobene su Poesia del nostro tempo

Su Poesia del nostro tempo, per la rubrica La parola dell’attuale, Maria Laura Valente recensisce Synagoga di Diego Riccobene.

La liturgia della parola orante in Synagoga di Diego Riccobene, recensione di Maria Laura Valente

A due anni dalla silloge d’esordio, Ballate nere (Italic Pequod 2021), segnalata tra gli editi del Premio Lorenzo Montano 2022, la poetica di Diego Riccobene torna a imporsi all’attenzione con Synagoga, plaquette di recentissima pubblicazione (gennaio 2023) per i tipi di Fallone Editore, che la propone come dodicesima uscita della collana Il leone alato, diretta da Andrea Leone. Pur constando di dodici componimenti, separati e rigorosamente numerati con ordinali romani, il corpo poetico di Synagoga si configura, in ragione dell’interna tensione unitaria che lo anima e che traluce sin dalla prima lettura integrale del testo, come organico unicum detonato e parcellizzato, il cui anelito alla reductio ad unum lo assimila più al poemetto in frammenti che alla silloge tradizionalmente intesa. Un moto spiritualmente ascensionale, specchio di un’umana tensione all’assoluto tanto incontenibile quanto ineluttabilmente inane, attraversa in crescendo, con ritmi ritualmente cadenzati, le tre sezioni – AdescareOrareConfidere. All’interno delle partizioni – esse stesse parimenti interpretabili come movimenti che, ontologicamente, scandiscono, senza soluzione di continuità, il tempo interiore del testo – i singoli frammenti poetici si dispongono, a guisa di formelle istoriate su portali sacri, come idealmente interconnessi e fieramente autarchici al contempo. Da ciascuno di essi e dalla loro sommatoria promana un’atmosfera rarefatta, permeata da un senso di arcana oscurità misteriosofica ed evocata da una liturgia della parola orante che pervade, come in un rito formulare, il dettato poetico.
A protezione del sancta sanctorum dell’opera, che ne racchiude l’essenza rituale e parasacrale, si eleva un’imponente architettura linguistica e stilistica, cui è sottesa un’inesausta opera di speleologia lessicografica e rielaborazione concettuale. In ciascun frammento, le scelte metriche sono improntate a una polimetria eufonicamente modulata, in cui s’intrecciano, in proporzione studiatamente variabile, dodecasillabi, endecasillabi, ottonari, settenari e quinari, la cui musicalità intrinseca è impreziosita da una sottile trama di figure di suono che ne amplifica le suggestioni fonetiche. Su tale corpo sonoro, si innesta il portato di una selezione lessicale di estremo rigore, improntata, attraverso soluzioni marcatamente arcaizzanti, alla formazione di un verderame linguistico, la cui percezione odierna, nel gioco dello shifting temporale, fa sì che la carica denotativa del linguaggio si trovi a deflagrare in forme marcatamente connotative. In quest’ottica di tensione all’obsolescenza e fine gusto per l’archeologia dell’etimo, sono da leggersi le numerose occorrenze di grecismi e latinismi di ascendenza classica e tarda, provenzalismi, arcaismi letterari e popolari, regionalismi desueti, tecnicismi obliati, nonché la propensione per la grafia scissa disusata e, come contraltare, per il neologismo univerbante.
Significativa inserzione nel tessuto polimetrico del testo è il frammento XII, le cui esatte geometrie (cinque quartine di endecasillabi) coronano il disvelamento dell’io lirico e del suo travaglio interiore, operato attraverso un impiego insistito della prima persona verbale (fugacemente manifestatasi, in precedenza, solo nel paesaggio onirico del frammento V e, come presagio dell’apostasia finale, nel frammento X) che campeggia all’interno di enunciati dall’assertività fieramente dolorosa. In quest’ottica, il componimento parrebbe configurarsi come suggello nonché come chiave di decrittazione concettuale dell’opera tutta, attraverso l’ostensione di una figurale paraclasi esistenziale, ingenerata dall’incontenibilità di uno Streben costantemente frustrato dall’intrinseca limitatezza umana. Le parole tema – segnatamente, rinnego e abiuro con la loro emblematica ricorsività, ma anche apostata, imposturaerrore – identificano, quale unico meccanismo di ricomposizione dell’io autoriale frantumato, la sconfessione del folle volo e, per estensione, della stoltezza connaturata all’intero genere umano, prefigurata in nuce sin dall’esergo, tratto da Das Narrenshiff (La nave dei folli), satira a sfondo sociologico di Sebastian Brant, pubblicata nel 1494 in un volume che vantava l’apporto iconografico di alcune xilografie attribuite ad Albrecht Dürer. L’opera di Riccobene si apre, dunque, sotto un’egida fortemente simbolica, quella della stultifera navis e della sua negazione, cui funge da perfetto contrappeso l’andamento lucido e apodittico della stringente ratiocinatio sottesa all’impianto generale dell’opera.

 

Da Synagoga (Fallone Editore 2023)

Adescare

I.

Non ha luogo, non l’atto d’impromettere
deissi al sostanziante
che cada purulento, formulario
su fonda volontà: s’è pronunciato
fonema d’estinzione, enteroclisma
palpebrato e simbionte.

Ma ti piegavi al fine, come ognuno,
fine non adempiuto
e scandito allo sfranto del tuo sesso,
inabitata escàra tuberosa,
originaria all’essere necrosi.
Che primamente muta.

Orare

VII.

Pervertire le esequie:
successorio deposto magistero
ch’ancora oggi s’invidia, titolando
alle bestie eulogie,
abitandone il concavo,
la caligine e i crespi d’irrisolta
dignità. Poiché perdere gli umori
non s’addice a certuni guidrigildi,
li spalmiamo su mani più essiccate,
se l’esperia parvenza
si bisogni di nulla che sia già
secretato nel murmure
a salvare il giaciglio, vedovare
il conflato d’acefala.

Confidere

XII.

Rinnego, abiuro e detesto l’errore
pur nell’inciso sul Libro di Ferro,
rinnego mali e misture implicando
piaghe passate a preciso risalto,

e prego fino all’acuzie del nero;
tratto l’apostata come lo stremo
nell’impostura che preme la semina
di un’addopata coscienza, la chiamo

per il dissesto, sì quanto rinnego;
detesto il grasso tramaglio del corpo,
scarificare vorrei la mia torba
pendice morta, vorrei compassarla

con l’adamante che ingorga prestezza.
Le vostre sorti mi ammorbano, ometto
ciò che commisi, lo strappo del velo
sotto grottesche istoriate d’errore:

logoro pasto che adesso rinnego,
detesto il vuoto, il non-ente che insorge
nell’improvviso indurare del ventre,
abiuro a vita, mistero e stupore.

Diego Riccobene (Alba, 1981) vive in provincia di Cuneo. È laureato in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Torino; è poeta, docente, musicista. Suoi scritti e interventi sono apparsi su antologie, webzine e riviste quali Atelier, Menabò, Poesia del Nostro Tempo, Critica Impura, Inverso, Versante Ripido, Laboratori Poesia, Pannunzio magazine, Neutopia, l’Estroverso. Alcuni suoi componimenti sono stati tradotti in lingua spagnola dal Centro Cultural Tina Modotti. Collabora con la redazione di Menabò online. Ha pubblicato Ballate nere (Italic Pequod, 2021), silloge segnalata in occasione del Premio Lorenzo Montano 2022 – sezione opere edite.

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