Mercoledì 4 Dicembre 2024 – Su Radura Poetica Se giuri sull’arca di Mattia Tarantino

Su Radura Poetica Paolo Andrea Pasquetti scrive di Se giuri sull’arca di Mattia Tarantino.

 

Tre frammenti da Se giuri sull’arca di Mattia Tarantino

da Se giuri sull’arca

IV

Perché l’acino, come l’Immagine, è nella sgranatura che assolve il suo mistero. Perché vediamo una terra, adesso, che urta contro il nulla, sbatte ai bordi, sembra bussi. Ci gira la testa. Ora che si staccano dal cielo sappiamo quanto fragorosamente collassino. Un tonfo, un buco tra la nostra testa e il Nulla, dove affiora la terra e qualcuno è a riva, ci aspetta da sempre. Ci guardiamo, sono uomini nudi con corna arcobaleno. Passano, correndo, tra gli scogli, una grande bestia li accompagna. La chiamano, la amministrano, pare la preparino al massacro. Fuochi accesi per la notte e tende, fumo. Portiamo mele annurche, una maschera di carbone. I primi li seppelliscono nel buco. Corpi celesti per altre rotazioni. Ci chiedono quello che tutti ci hanno chiesto. Non diciamo una parola e siamo ancora salvi.


da Sciababàb

I

Parlano, ma come gli uccelli, un dialetto celeste. Il fuoco è acceso e il villaggio più vicino. C’è il pane caldo, l’anice da scaldare insieme al vino. Saranno ricordati in carovana, come in fila per presentarsi al Giudizio, ma nessuno li vede oppure non esistono occhi; jolly d’ombra che frugano nel fogliame, che strisciano, convulsioni nelle province dell’ombra. Nottenati, Cunicoli, come nomi di popoli smilzi, fantasie di popoli scalzi. Smàcchera zan ca tio perēse, ca sa pèrese rubina i scancia. Parlano, ma come uccelli dai becchi mostruosi, dai becchi d’anice, liquidi, smacche zatàn come grumi, come calcoli, un dialetto di reni celesti se tutta la lingua è un’orma, se qualcuno si allontana dal villaggio, viene, se fischia.


da L’Ermeneuta

IV

I robota nelle grotte con le bestie, sangue sintetico, di frontiera, lunare. L’Ermeneuta è stato dissepolto, li ha annunciati.

IL PRIMO: (farfugliando)

                                         lan zanè…

                                                          mattatah…

                                         ba, ba, pe galùppe…

LA VORAGINE:

Se viene, se ti schiantano la lingua. Questo è il dominio delle voci da tamburo, dell’icona del toro, corna grasse, cosa credi?

IL PRIMO: (strisciando sui gomiti verso i tentacoli che emergono dal buco)

                                                                                                                      mattatah…

                                                                                                                                         babagaluppe…

                                                                                                                        mattatah…

LA VORAGINE:

Sono loro la macchina sintattica, Mattath, sono loro che connettono e tu non vedi niente, guarda cosa accoppiano, come scorre. Quanto vento…


(sibili ventosi, un crescendo di fruscii, come una truppa di serpi d’aria marciasse strisciando)


MATTATH: (avanzando sui gomiti, tra i tentacoli, fino all’orlo del buco luminoso, fa per parlare ma c’è luce dappertutto, un neon fosforescente, come santo)


 In questi frammenti tratti da Se giuri sull’arca (Fallone Editore, 2024) che oggi ospitiamo tra gli spazi della Radura Mattia Tarantino assume le vesti, verrebbe da pensare, del poeta come se lo immaginava Rimbaud: «Trouver une langue»[1]. È chiaro, infatti, il tentativo da parte dell’autore di una vera e propria incursione corporea nel linguaggio che non si ferma, tuttavia, alla semplice ricerca linguistica ma avanza con tutti i sensi, tutte le parti fisiche – dalla gola che brucia una lingua ancora non detta ai gomiti scorticati nel cammino strisciante verso di essa – facendosi inevitabilmente racconto, narrazione poetica che proprio perché tale riannoda su di sé le caratteristiche di un mito fondativo, generativo e rigenerativo del linguaggio stesso. Una narrazione mitica, tuttavia (ed è questa la sua peculiarità), consapevole del tempo all’interno del quale è chiamata a darsi, consapevole del periodo storico attuale dal quale trarre i suoi primi movimenti di neonata che gattona sul terreno del mondo. In tal senso, di fronte alle immagini di spiagge abitate da relitti di terre, uomini e bestie o a voragini profonde dalle quali cercare una risalita, l’associazione estetica e tematica non può non andare a rappresentazioni offerte da opere artistiche videoludiche recenti come Death Stranding[2] o Dark Souls[3]. In queste visioni – tutt’altro che allucinate, bensì lucidissime – offerte dall’io che viaggia all’interno di esse e le racconta, risillaba proprio il continuo movimento tra avvizzimento e rinascita, degradazione e rigenerazione che si racchiude nell’orma lasciata dalla parola di chi abita quei mondi, quelle terre stesse.

E quando, appunto, l’io diventa testimone di una neolingua che nasce di fronte ai suoi occhi silenziosi essa non può che riprodursi tra balbuzie e afasia, singulti e aspirazioni fonetiche e fonologiche. Allo stesso modo l’unica forma possibile per la narrazione diviene, allora, quella del frammento, orma grafica impressa su quella della parola che, ancora, nell’inserire fisiologicamente all’interno di un andamento “aedico” termini contemporanei – dal neon, ad esempio, al jolly – mostra la propria consapevolezza cronologica, il cuneo del compito che si è prefisso all’inizio del suo viaggio linguistico e, proprio per questo, tutto umano, antico e presente allo stesso momento della narrazione. L’obbiettivo, forse, è scorgere un’unità che scorre tra le cose, farsene carico nel saperla pronunciare nonostante il prezzo che pare esiga per chi vuole rinascere in quel nuovo canto che si appresta e scuote tra luce e ombra: l’esserne testimoni, ricalcarne le orme, ne è la sua scoperta ed inizio continuo.

Paolo Andrea Pasquetti, 4 dicembre 2024

 

[1] A. Rimbaud, Lettre à Paul Demeny, 15 mai 1871 in A. Rimbaud, Poesie e Prose, a cura di Paola Ricciulli, traduzione di Bianca Lamanna Salerno Editrice, Roma, 2001, p. 580.

[2] Hideo Kojima, Kojima Productions, 2019.

[3] Hidetaka Miyazaki, FromSoftware, 2011.

– Fotografia in copertina: Antonio Simone Verde.

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