Mercoledì 6 luglio 2022 – Su Via Lepsius Reliquiario carnale di Giancarmine Fiume

concatenazioni, connessioni, attraversamenti, visioni

Litania di voce sola per la Sibilla: su “Reliquiario carnale” di Giancarmine Fiume

di Antonio Devicienti

       cretto di burri

          La voce monologante che con inesausta tensione ritmica e temeraria inventiva linguistica dispiega questo Reliquiario carnale (Fallone Editore, Taranto 2022) si rivolge reiteratamente a un “tu” che possiede un nome (Sibilla Pavese), già enunciato nel libro precedente, ¡u! (puntoacapo Editrice, Pasturana 2020) e che, oltre a essere senhal trasparentissimo della donna amata (incarnazione dell’eros), è, nell’interpretazione che qui ne propongo, la lingua e la scrittura stesse dal momento che, al di là della struttura anche “narrativa” del libro, il notevole valore di Reliquiario carnale risiede proprio nel suo aspetto linguistico, nel suo porsi come monologo-dialogo (spiegherò subito che cosa intendo) intorno a e con il dire in poesia.

         A titolo informativo per chi qui legge dirò infatti che il libro ha forma di dittico (Ciumareddu Mambruch) in cui si racconta del viaggio di andata e ritorno e di un breve periodo estivo trascorso dall’io lirico e dalla Sibilla Pavese in diverse località della Sicilia orientale (Ciumareddu è un quartiere di Nizza di Sicilia in provincia di Messina, in cui è nato e ha vissuto da giovane il padre dell’autore), quindi l’azione si sposta a Mambruch, un quartiere di Rovellasca dove l’autore vive. 

         Attraverserò il libro soffermandomi in particolare sull’aspetto espressivo-linguistico, all’interno del quale Fiume crea frequenti cortocircuiti linguistici ( e, di conseguenza, concettuali):

Malpensa Terminal 1, lunedì dodici agosto.
[...]
È il nostro primo decollo, Sibilla Pavese, 
e uno sconforto 
epidurale comincia a salire.
Un sumero elegante seduto in vetrina 
come un manichino al bancone del bar
versa aspartame in una tazzina "autogrill",
un dodicenne piange
e un cane nella gabbia che medita
filosofie ellenistiche mentre passano
come monatti
a raccogliere la differenziata.
(p. 25)

         La mescolanza di termini (anche tecnici) provenienti da ambiti usualmente niente affatto prossimi tra loro crea quei “cortocircuiti” cui accennavo, cui va aggiunto l’impiego del verso libero che consente all’autore variazioni (anche repentine) di ritmo, oppure gli fanno creare una dizione tesa fino allo spasimo. Direi che la tecnica più ricorrente adottata da Fiume è accostare termini o espressioni del registro colto-letterario con termini della quotidianità anche più banale (qualcuno potrebbe definirla “prosaica”): entro situazioni completamente prive d’aura irrompe, improvviso e inaspettato, l’accostamento “fuori luogo” ed è proprio questa dislocazione linguistico-concettuale ad accendere il testo, a farlo salire a temperature linguistiche molto alte, ma, essendo l’eros l’altro grande tema che innerva il libro, anche l’erotismo (quello del linguaggio e quello dell’esperienza personale abitata da pulsioni e slanci fortissimi e vivaci) dà forma al testo stesso.

         La Sibilla Pavese è colei che, pur muta perché costantemente invocata e citata ma della quale mai è dato leggere eventuali parole (soltanto in conclusione dello stesso testo di pagina 25 si dice che pronuncia «un vocabolo tronco qualunque» e a pagina 45 si legge: «il tuo silenzio è una cartolina / dalla fine»), la Sibilla Pavese, scrivevo, è destinataria di una litania monologante, ma, nello stesso tempo, “tu” di un dialogo serrato e singolare tra l’io lirico e il pregnante, significante silenzio dell’interlocutrice, ella è la lingua stessa che emana i suoi responsi, è il nascere e l’esistere nella lingua, è, ribadisco, l’erotismo della lingua che genera il rapporto dell’autore col mondo; non si trascuri il fatto fondamentale che Reliquiario carnale è dedicato a mia madre, la mia prima dimora e che l’intero poemetto è una litania consacrata al femminile, all’attrazione del maschile per il femminile e al prendere forma e ragione del maschile proprio grazie all’energia generatrice e vivificante del femminile; sia reliquiario che sibilla vanno ricondotti al lessico d’ambito religioso e veramente siamo innanzi alla glorificazione del corpo femminile (nominato spesso in relazione a sue singole, precise parti, così che il “reliquiario” del titolo assume ulteriore ragion d’essere), ma femminili sono, ribadisco, la scrittura e la lingua, da esse deriva il piacere (erotico) della costruzione del testo, delle scelte lessicali, della pronuncia del verso, della sua articolazione strofa dopo strofa, pagina dopo pagina.

Aggrappato come un'ombra all'umido 
bagliore delle mucose
erompe il silenzio dalle tue labbra conserte
tra girasoli monaci e stilizzati presagi,
nel filo spinato l'universo
a tratti si contrae
finché non divieni:
Sibilla Pavese.
(p. 28) 



Nel pescaggio della meiosi
il tuo sudore come mosto 
raggruma ogni mio singolo presagio
sopra un terrapieno di mascara. 
Dalle persiane semi scrostate
mi abbevero alla tua bocca smagliata.
(p. 29)



Attendo lo spiovere degli eventi
dai tuoi seni ogivali
per farmi madrigale 
del santo patrono, 
tra bombole di propano
e detersivo in polvere
nel sottotetto arroventato 
sarà d'amianto la nostra eternità.

Qui si vede il fondale ad occhio nudo
e l'alaggio dei nostri sessi contriti
in alta definizione, 
primo piano di un cofano corroso
nel parcheggio del distributore.
(p. 32)

         L’accostamento temerario, a volte consapevolmente provocatorio, altre volte dovuto alla volontà di sperimentare certi effetti linguistici e concettuali, altre ancora in ragione di un gusto tra l’espressionista e il barocco, riesce a dare alla voce di Giancarmine Fiume un timbro che marcatamente la distingue dal (troppo) vasto e incolore coro-ciarlare indistinto che è gran parte della poesia italiana di questi anni; vedo in Reliquiario carnale (che è un poemetto unitario e coerente, più che una silloge di testi in versi) un progetto di scrittura consapevole e maturo e la ricerca di uno stile, di una personalità poetica, di una voce, appunto, che si assume il rischio, che osa, che non ha paura di eventuali svarioni o squilibri o cadute di gusto (non sempre i cortocircuiti di cui scrivevo sono convincenti oppure non fanno venire il sospetto del vezzo o della provocazione fine a sé stessa: «diazepine dal tuo perizoma / con filtro antiparticolato» p. 31, «i tuoi gemiti ergonomici» p. 68, «divinità in premenopausa» p. 73, «tuo seno / rutilante» p. 98) – e in un panorama sovente così grigio sia benvenuto chi osa e chi rischia.

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Mi allontano come un elastico 
rotto dalla tua bocca friabile 
dove bivaccano le mie malinconie
nell'odore di cuoio tamponato, 
pane al sesamo e nudo integrale.
Cerco ancora il mio sapore
sul tuo fenotipo top di gamma.
(p. 37)



La tua schiena una losanga
senza portanza, il drappo scarlatto 
su cui vedo me stesso crocifisso.
(p. 42)



Contro i tramezzi della terrazza
ristrutturata il tuo sudore
passito mi stringe
come il fico le vespe.

Posso anche scardinarmi le palpebre
sui tuoi addominali
che sanno di bucato a mano
mentre parole scorsoie
mi scortano ad annegare,
meridionalmente.
(p. 44)

         Ci si soffermi sulle sonorità interne ai testi per rendersi conto di come ogni parola (compresa la sua posizione rispetto agli altri vocaboli) sia scelta con estrema cura al fine di potenziare al massimo l’espressività della dizione e quanto pregevole sia questa determinazione nel voler conferire vigore e vibrazioni inattese alla lingua, quanto sia evidente che per Giancarmine Fiume l’amore (anche fisico) sia rapporto letteralmente carnale e con un altro essere umano e con la lingua italiana, non si taccia che, sempre nel solco eros-generazione-carnalità, le figure del padre e della madre, citata l’una in esergo, l’altra in una nota a piè di pagina, quindi (apparentemente, ma solo in apparenza!) “di lato”, siano invece a loro volta presenti e determinanti, ché i giorni in Sicilia a cavallo del ferragosto (l’arco temporale sotteso alla prima parte del libro) costituiscono il breve ritorno al paese paterno – dunque alle proprie radici; i numerosi riferimenti alle feste religiose della Sicilia orientale (soprattutto mariane in relazione al ferragosto, dunque legate al femminile e al suo aspetto della maternità) confermano l’appartenenza di Reliquiario carnale a una sfera che definirei profanoreligiosa nel senso che essa è caratterizzata dalla compresenza, dalla concomitanza, dall’interconnessione tra elementi che tradizionalmente vengono ritenuti “profani” (etimologicamente, quindi, propri di chi sta “davanti” al tempio) ed elementi afferenti al sacro, il tutto letteralmente incarnato dalla Sibilla Pavese, colei che assume anche la funzione della Musa, per cui il libro approda a una celebrazione (totalmente laicamente religiosa) dell’amore e della poesia.

Ora la messa è finita:
la tua lingua sulle mie carni
andate in brace.

Eppure

dissestate dai tuoi zigomi
scogliosi
nel silenzio assenso dei giorni migliori
sfarinano antiche intenzioni.
(p. 57)

         Il ritorno verso Rovellasca inaugura la seconda parte del poemetto: «[…] / Sei bella, Sibilla, / tesa e struccata contro il finestrino in cristallo / accoppiato dove si consuma / la tua teofania» (p. 65). E Reliquiario carnale si conferma, anche, un sentiero possibile per la poesia di tema amoroso, altra scommessa ardua e rischiosa che, nel doppio itinerario geografico (nord-sud, sud-nord), nell’uso del senhal, apre un ampio ventaglio d’ipotesi e d’interpretazioni: questo libro potrebbe anche essere la narrazione della parabola di un amore, oppure, nel gran numero di riferimenti autobiografici, il racconto dell’evoluzione di un io scisso tra due identità (quella “meridionale” e quella “settentrionale” e in tal senso esso potrebbe parlare a una quantità davvero ampia di Italiani), o anche la rappresentazione di due stili di vita (pur nei scarni riferimenti all’ambientazione e al paesaggio, gli “interni” e anche gli “esterni” presenti nelle due parti fanno chiaramente identificare una geografia lombardo-settentrionale e una siculo-meridionale).

Trattengo
sulle tue calze aderenti
come nasse
a stento qualche occhiaia
e un intento retrattile
prima di inalare
tra le serrande opacizzate
del tabacchino chiuso per ferie,
di femmina, il tuo sordo
ansimare di tre quarti.
(p. 70)



Tu, Sibilla Pavese, 
sposa del fiume
abbeveri la mia anima
arida, ruvida ed avida.
Quando il tuo sorriso sorge
sul lato oscuro del mio viso
e si sciolgono i ghiacciai
nella vita ch erisorge, 
nella semina del riso, 
io mi specchio nell'incavo
della tua mano.
(p. 80)



Ormai ci siamo.
Sertralina e distillati.
Non resta che fare la voltura
nel mio cervello eiettabile 
come molluschi spiaggiati
nelle vaschette
riciclate dell'Esselunga.
(p. 82)



E come un canto nuziale
dall'infiorescenza delle cicatrici,
io vengo ancora a te,
Sibilla Pavese
tramontando sulle striature
ambrate del tuo carnale
reliquiario.
(p. 87)

         Significativa è quella che chiamerei la saldatura tra le due parti: «Gli aerei diretti a Malpensa / nel cielo di Rovellasca / sono le barche a vela sullo Ionio / viste da Roccalumera» (p 96) fino alla risoluzione finale: «Dovrei dirti che ti amo, / dovrei dirti che scompaio / per la prima volta» (testo a pagina. 99).

         Ma che, isolato nel bianco dell’ultima pagina, si legga il verso-testo «non oltre avvengo» (p. 102), significa aver posto il sigillo definitivo a questa litania per la propria musa-sibilla, aver stabilito una volta per tutte che la propria identità coincide con la scrittura e che la scrittura vaticina vita, energia vivificante, presenza nel mondo e al mondo.

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