Su Via Lepsius Antonio Devicienti scrive di Nome di paese: Ascensione di Mario Santagostini.
“P. S.: Come puoi capire, in questo momento ignoro a chi mi rivolgo. Forse a nessuno. Decidi tu, chi essere, chi non essere. Se rispondere, non rispondere mai. Aspetto.” – – – intorno a 12 poesie di Mario Santagostini
È un piccolo capolavoro Nome di paese: Ascensione (Fallone Editore, Taranto 2025) di Mario Santagostini, ma “piccolo” soltanto per il suo formato tipografico il quale, in un libriccino di ridotte dimensioni, accoglie 12 testi com’è tradizione della collana di poesia Il Leone alato, offrendo alla lettura un lavoro coerente e controllatissimo per stile e architettura, coraggioso per l’ardua tematica affrontata.
I primissimi versi che aprono il libro («Poi, ho anche pensato come il DNA, a volte, / sembra retroattivo. / E cammina all’indietro. / E arriva lontano. O si è perduto. / Non so dove, ma è perduto. / E mi abbandona. E fa che il mio, di padre, / non sia padre. Per nessuno» – Rappresentazione di se stesso, p. 13) introducono immediatamente, insieme con le parole conclusive della prosa a pagina 15 («Il cielo sembra qualcosa di paterno e, come ogni padre, incomprensibile» – Rappresentazione urbana), sia il tema del padre e del rapporto tra le generazioni, centrale in numerosi libri in poesia pubblicati negli ultimi decenni, ma affrontato da Santagostini in maniera peculiare eliminando alla radice e da subito ogni riferimento strettamente privato e problematizzando significati e implicazioni non in chiave psicologica e/o psicoanalitica, ma storica e culturale, sia il tema portante di Nome di paese: Ascensione, ovvero la memoria individuale e collettiva dell’Italia del secondo Dopoguerra, l’eredità psicologica, storica, culturale e politica della Resistenza e della Repubblica di Salò, lo stratificarsi del tempo dentro la memoria individuale e le oscillazioni (o le incertezze, le intermittenze, gli scarti, gli inganni) di quella medesima memoria – e sia ben chiaro che Nome di paese: Ascensione si colloca in perfetta continuità con i libri precedenti di Santagostini e, nel medesimo tempo, ne rappresenta un’importante conferma per coerenza di stile e di scelte tematiche:
«[…] qui, anni fa, in un prato, una specie di festa popolare o solo un assembramento spontaneo, o un raduno per una partenza qualche giorno dopo la Liberazione, nel ’45. O un comizio. Bandiere. Megafoni inchiodati agli alberi, forse un temporale in arrivo. Sfollati tornati a casa. Si parlava anche di una bomba inesplosa, nella spianata. Fatta brillare dopo, verso il ’70. In un tempo diverso. E di due, tre repubblichini sbandati e beccati in una cantina. Portati di peso lì e sputtanati, o picchiati per ore intere. Uno alto, tirato. Che sembrava non aver dormito per giorni. Decenni dopo, quasi mi hanno scambiato per lui. Ma di questo, più avanti» (Addenda, p. 16).
“Uno alto, tirato” è Leitmotiv che percorre tutto il libro unificandolo dalla prima all’ultima pagina, affrontando la questione dell’identità italiana del secondo Dopoguerra in quanto segnata nel profondo dalla scissione tra Resistenza e Repubblica di Salò – sia ben chiaro che Santagostini non risolve la questione in maniera semplicistica o conciliatrice, ma ne mantiene la dolorosa, atroce dicotomia, con totale onestà etica e intellettuale non si sottrae alla verità che l’Italia contemporanea nasce da un lato con una mai veramente attuata riflessione individuale e collettiva sul Fascismo e sulla Resistenza e dall’altro con un’identità doppia, innegabile, spesso ambigua, ancora irrisolta ed è questa ai miei occhi l’ardua tematica affrontata insieme con quella dell’identità dell’io, del retaggio storico che lo determina assieme al presente:
(Rappresentazione urbana, con il giovane Luciano Erba) Forse, la vita con tutti i suoi strani materiali, voluti e non voluti, sono stati una specie di passo indietro. E non so da dove. E anch'io sono uno-due passi indietro da chi, una sera, stava sul corso. E vedeva i tram allo stop cambiare binario. Mancavano, e mancano, non so più quante fermate per arrivare a quelli che il giovane Erba ha chiamato – i quartieri senza ricordo. E molti anni. E non so quanti, di anni, ne mancavano prima che il giovane Erba ritornasse fra noi. E altri ancora, prima che non tornasse più. In una città diversa e mai più vista. Ma ancora in questa, di vita. (1972 – 2021 – 2024) (pp. 17 e 18)
Le date in calce al testo scandiscono da sole le occasioni del testo stesso, ma, soprattutto, il succedersi delle fasi che hanno visto Santagostini riflettere e ritornare e sull’intera opera per lui evidentemente esemplare di Luciano Erba e sul testo di Vittorio Sereni (L’alibi e il beneficio leggibile negli Strumenti umani del 1965) in cui il poeta luinese cita due versi di Erba («è sera qualunque traversata da tram semivuoti / mi vedi avanzare nei quartieri senza ricordo») per replicare «mai visto un quartiere così ricco in ricordi / come questi sedicenti “senza” nei versi del giovane Erba» – e nel libro di Santagostini più in là compariranno anche i nomi di Emilio Tadini (p. 19, 25, 34), di Giovanni Raboni (p. 43) cui chi legge aggiungerebbe quelli di Franco Loi, di Stefano Raimondi, di Milo De Angelis, di Luigi Cannillo, di Giampiero Neri, di Maurizio Cucchi, di Giancarlo Majorino, di Tiziano Rossi (e, anche, di un narratore del calibro di Giorgio Fontana) per ribadire quanto feconda di scritture sia Milano e quanto la sua storia e memoria coincida con quella recente e recentissima d’Italia; Santagostini, nato proprio a Milano nel 1951, “rappresenta se stesso” (per usare una sua ricorrente espressione) anche come frutto di vicende che sono accadute prima della sua nascita biologica, in un incrociarsi, cioè, e sovrapporsi e oscillare e intrecciarsi di accadimenti e di memorie e d’impressioni che, a un certo punto, sono davvero indistricabili perché diviene impossibile discernere reale e visione, ricordo e fatto, suggestione e testimonianza oggettiva, biografia personale e familiare e collettiva – «Mancano testimoni, supertestimoni. Manca chi vede lontano» scrive a pagina 35 come a evocare la nota, atroce domanda celaniana “chi testimonierà per il testimone?” È la dissoluzione del soggetto inteso come funzione perfettamente identificabile e descrivibile ad aprire lo spazio a un soggetto dalle identità molteplici e anche contraddittorie, prese dentro slittamenti continui di prospettiva e di tempo, trasparente allusione anche a una storia come quella italiana del Novecento inconciliabile e inconciliata.
È in particolare il tempo l’elemento indecifrabile e indecidibile:
«E dopo anni, un sabato sono tornato a piedi dalle parti di via Porpora, e quasi arrivavo a Lambrate. Dove ha abitato il mio amico Emilio, sparito nel 2002, a settembre. Non l’ho trovato. Forse, non mi aspettava. O è andato via un attimo prima che arrivassi. E mi sembra lontano. Ma è una sensazione. E come tutte le sensazioni, può mentire. Penso sempre che un giorno Emilio e io ci rivedremo, che verrà anche Franco Pardi e qualcuno che adesso non ricordo. Un rinvio come quello di oggi ci può stare, non è stato e non sarà il primo» (p. 25).
È il tempo anteriore alla propria nascita a interrogare l’identità di chi è venuto dopo, a chiedergli conto delle scelte di campo, a costringerlo a ripensarsi non soltanto alla luce delle azioni effettivamente compiute, ma anche di quelle possibili in un passato che sarebbe potuto essere e non è stato:
«Non credo che se fossi stato in vita / nel ’44, ’45 qui a Milano, / avrei preso parte a delle azioni / insieme ai ribelli. O ai primi scioperi illegali della Breda. / Al più, avrei nascosto / degli ebrei in casa, forse dato aiuto / a qualche imboscato. / Lo scontro fisico mi fa e mi ha sempre / fatto paura » (Io, oggi e forse anche nel 1944, o ’45, p. 31).
Alcuni dei punti cruciali di Nome di paese: Ascensione si trovano nel segno di Emilio Tadini non solo perché amico carissimo del poeta, ma anche perché memoria di una Milano decisiva per i destini dell’Italia contemporanea, non per caso evocato assieme a (Gian)Franco Pardi, anche lui artista figurativo attivo in anni di svolte; scrive Santagostini alcune pagine dopo: «Certe volte, mi sento uno che è stato a letto con la compagna / dell’amico disperso / in Russia, o deportato a lavorare / in Germania. E in aprile, un mercoledì è andato / a guardare gli appesi al distributore, / in fondo al corso Loreto. / Emilio Tadini, anni dopo, mi ha raccontato / che è passato anche lui da quelle parti. / E, forse, ha notato / uno che sembrava me. / Era lungo e magro come un chiodo, certo ha dormito / poco e molto male, per mesi. / […] / Difficile, sapere chi c’era, / chi non c’era ancora» (Io stesso, nel ’44 o ’45, pp. 34 e 35) – e successivamente:
(Io stesso, nel ’44 o nel ’45. E nel 1974) Nel 1974, se non ricordo male, parlavo al bar del dopolavoro con un ex ribelle che si era salvato da una esecuzione. Dopo una retata. – L’impressione è stata d’un pugno tremendo alla mascella, o un calcio in faccia. Poi è svenuto. Rinvenne ore dopo, da vivo. Come fossero passati anni: veniva giù della pioggia ghiacciata. Salvato da chi gli era rotolato sopra, nascondendolo. Recuperato per un caso. Ha aggiunto che in qualcosa io gli ricordavo uno che gli aveva sparato. Alto e magro, come chi ha dormito poco e male per mesi. Continuava: – Ma tu, devi rimanere tranquillo. In quei casi, consegnavano un’arma caricata a salve. Una sola, a volte due. Ma chi la riceveva non lo sapeva. Nemmeno oggi, lo sa. Magari eri proprio tu, quello. (pp. 37 e 38)
Come si vede Nome di paese: Ascensione continua anche l’altra cifra stilistica di Santagostini, che è l’accostamento di un testo in versi piani tendenti alla prosa (ma non per questo privi di ritmo creato soprattutto dagli enjambement che, spezzando e appunto inarcando il verso della scrittura, conducono la voce ad assumere una cadenza che prosa non è) e un breve testo invece esplicitamente in prosa anche per la disposizione della scrittura sulla pagina, quasi una chiosa o un corollario a quanto detto poco prima – e volendo affrontare la questione del titolo del libro mi richiamo a quanto scrive Giorgio Agamben intorno al vocativo: «[…] esso […] non si riferisce al testo e al contenuto dell’enunciato […], ma al suo aver luogo; non si riferisce al nome che proferisce in quanto elemento lessicale, che rimanda a un soggetto o a un oggetto, ma al nome soltanto in quanto è chiamato in un’istanza di parola. E, tuttavia, rispetto agli indicatori dell’enunciazione, esso implica una dimensione ulteriore, che lo costituisce in una sorta di arci-shifter. Ciò che il vocativo chiama è la lingua» (La voce umana, Quodlibet, Macerata 2023, p. 27) – leggiamo infatti in Santagostini: «Ricordavo paesi dai nomi / bellissimi: Trafficanti, Ascensione, / […] / E allora ho pensato a cosa / può fare un nome, che cosa ha fatto. / A chi lo ha dato, chi lo toglierà. / E come un nome / può perdersi, tornare o non tornare» (Nomi di paese, p. 27) – l’istanza di parola (nominare luoghi e, in poesia, la nominazione tout court) non è un atto comunicativo, ma di creazione e, talvolta, di de-creazione, è un andare oltre quell’istanza per investire nelle sue ragioni profonde l’oggetto stesso di ogni scrittura consapevole e seria, cioè la lingua; significa mettere ogni volta in questione la relazione tra nome e cosa nominata, tra sistema linguistico e realtà, tra narrazione dei fatti e i fatti stessi, tra autopercezione dell’io e mondo; è per questo che una lettera di cui non si è tenuta copia e ricostruita a memoria potrà essere ricordata dall’effettivo destinatario o da un qualcuno ancora ignoto, come se il dire in poesia trascendesse il singolo poeta-individuo attuando lo spostamento di cui scrive Agamben (e non è un caso che un libro recente di Santagostini sia intitolato Il libro della lettera arrivata, e mai partita – Garzanti, Milano 2022): «- Caro compagno, penso ancora che sia possibile / una fine graduale / del regime. Una specie di transizione / democratica. Io, mi adopero / per mediare. / […] / Parlane, se riesci, con Aniasi. Non è un settario. / Come avrai capito, mi chiamo fuori. / […] // P. S.: Ti mando tutto attraverso un giovane che sembra fidato. Alto e magro. Se lo incontri, offrigli da riposare perché mi pare messo male. Sono tempi difficili per tutti, e lo sai. Spero che ti arrivi tutto senza problemi. Succedesse qualcosa, fai sparire questo foglio. Ma tienine memoria per sempre. Un giorno, potrai ricordare queste righe. O sarà qualcun altro, a ricordare. Non chiedere chi sia, non lo so ancora. // (Milano, inizio del 1945)» (Una lettera di cui non ho tenuto copia. Ricostruita a memoria, pp. 39 e 40).
Possono bastare poche pregnanti frasi per cogliere le ragioni di una poetica che è, anche, ragione esistenziale, così che la scrittura deve non giustificare sé stessa, bensì dichiararsi in tutta la propria necessità e urgenza: «[…], a volte, è come se sognassi di stare qui e allora, insieme. […] È come se una vita non bastasse […]. Non una vita sola, almeno. Non la mia» (Postilla, p. 41); «Posso solo pensare a me stesso, a quando retrocedo con la memoria. Che in certi momenti, chiede aiuto. E inventa. E a volte, sente profondamente come la mia vita è cominciata prima del 1951, o in un tempo ormai troppo difficile da capire: tutto era incerto» (Una nuova lettera, p. 43).
L’idea del bene (titolo del libro Guanda del 2001 e del testo alle pagine 23 e 24) è «come […] un computo / sempre finito a zero, e lo zero il primissimo segno / della limpidezza / e del nitore, quasi del bene…» (testo cit. p. 24), vale a dire un rinnovato ripartire da capo, un riconsiderare la memoria anche nei suoi inganni e nelle sue ambiguità, nel suo sconfinare dentro i territori onirici, un laico evocare la figura dell’angelo (messaggero tra i tempi) sapendo che «[…] tanti gli angeli, / tante le loro forme. / Umane e non umane. / Buone o meno buone» (ibidem) e che i nomi di paese ancora esistenti oppure perduti indicano che «Forse, tutti sono in cammino da lontano, da qualche paese» (p. 20), che forse la poesia è l’istinto di chiedere a qualcuno che non si vedeva da anni «da quale paese è tornato […] che strada ha fatto, chi ha incontrato» (ibidem) – «Mi è successo con Luciano, mesi addietro. Forse, succederà con altri, o con tutti. O non succederà mai» (ibidem).
NOTA conclusiva: il titolo che ho voluto dare a questo mio intervento è una citazione diretta e integrale degli ultimi cinque righi che chiudono Nome di paese: Ascensione a pagina 44.
Le immagini riproducono opere di Emilio Tadini del ciclo Oltremare.