Sabato 20 Gennaio 2024 – Sentieri di Antonio Devicienti su Perìgeion

Su Perìgeion Nino Iacovella scrive di Sentieri. Saggi e racconti sul corpo della scrittura di Antonio Devicienti.

Sentieri saggi e racconti sul corpo della scrittura, di Antonio Devicienti

di Nino Iacovella

Sentieri saggi e racconti sul corpo della scrittura

Antonio Devicienti è conosciuto soprattutto nell’ambito dei litblog di poesia dove, nel tempo, ha approfondito una particolare ricerca sul mondo della scrittura, con una focalizzazione nelle sue intersezioni con i diversi linguaggi dell’arte. Una ricerca appassionata e a tratti commossa, soprattutto nel momento in cui egli riattraversa i percorsi dei grandi maestri della creazione artistica. Devicienti fondamentalmente è un poeta che preferisce farsi rappresentare dalla poesia e dall’arte accogliendola in sé, da lettore e fruitore instancabile sempre alla ricerca del segreto dei molteplici canoni della bellezza, bellezza declinata nella sua connotazione più pura e umana.

Parte di questa esperienza la narra in questo breve saggio diviso in tre atti, di cui il primo Guardare. Immaginare. Andare. [L’occhio, la mano], è il focus di questo articolo incentrato sulle traiettorie poetiche del più grande “pensatore sentimentale” della nostra letteratura, Giacomo Leopardi, in questo caso affiancato al maestro della fotografia Mario Giacomelli.

L’esergo al testo di Federico Ferrari mi colpisce. Dice: Il fine della lettura è l’istante in cui gli occhi si alzano dalla pagina. Mi fa pensare al gioco di parole implicito: la fine, il fineLa fine come conclusione vera e propria del processo di lettura; il fine come scopo, l’immersione nel testo come per rimanere il più possibile nelle sue profondità fino a quando, con occhi stanchi, si arriverà al momento di riaffiorare e respirare quelle percezioni mentali (ed emotive) derivanti dalla scrittura, farle assestare e innestare temporaneamente tra gli oggetti reali che al momento riempiono il proprio campo visivo. Quanta densità d’immagini in questo scampolo di testo scelto da Devicienti. D’altronde non c’è nulla di più significante della scelta di un esergo introduttivo.

Guardare (fuori), guardare dentro (immaginare): andare con lo sguardo e andare attraverso il processo di scrittura e, in restituzione, di lettura:

“Inizia da qui, da Palazzo Leopardi a Recanati, quest’itinerario della scrittura che concepisce sé stessa quale andare del pensiero e dell’immaginazione. L’attraversamento delle sale della bibioteca (le finestre spalancate sul Borgo) l’uscita del giardino interno del Palazzo, movimento del corpo del visitatore mentre si prova a immaginare il poeta nei luoghi della sua infanzia e giovinezza, è moto assai frenetico della mente che raccoglie sensazioni, suggestioni, intuizioni. Andare attraverso la sede della biblioteca, camminare è atto fisico che soltanto anticipa (o ricorda) quello che accade quando si legge, quando si scrive: si apre un libro o un quaderno e si comincia ad andare.”

Antonio Devicienti afferma che è sempre tutto il corpo ad accompagnare la lettura, anche quando esso sembra eclissarsi cedendo il campo alla sola mente che legge.

Ma in quel corpo scorre l’energia emotiva, la forza del desiderio che si fa scrittura. La poesia è acqua che placa momentaneamente una sete interiore inappagabile, se non nell’istante in cui la poesia si manifesta nella sua epifania.

L’autore in questo saggio s’inoltra nei luoghi e nelle inquietudini di Leopardi, nella dolente compresenza di un desiderio d’infinito e del senso della finitudine che definisce la condizione umana, dove è la poesia a risolvere l’aporia, a dare un senso al dramma esistenziale umano.

Spesso si scrive in chiave metaletteraria, sentimentalmente metaletteraria alla ricerca dell’innesto, tra le radici della vita, della linfa dell’arte. Nella potenza e nell’intersezione dei suoi codici. Nella magia del tratto di una penna che traccia una parola.

E dopo aver letto questo breve saggio, sento ora di percepire la scrittura attraverso un accostamento: un disco, un vecchio long playing solcato dalla puntina in diamante: uno scavo creato per restituirci miracolosamente ogni dettaglio della musica, così come la penna sul foglio codifica e raccoglie all’interno delle parole ogni dettaglio del mondo che il lettore riesce a ritrovare nel caleidoscopio del suo immaginario. Entrambe sono sequenze di un miracolo che, come la poesia, non sappiamo spiegarci; non sappiamo spiegarci il perché sia proprio lì, in un solco del vinile, in una traccia continua d’inchiostro il filo d’Arianna che ci mostra la via uscita dalla scacco matto della morte. E penso che anche questo, in fondo, Antonio Devicienti voglia dirci con questa sua opera.

Sentieri saggi e racconti sul corpo della scrittura, Antonio Devicienti, Fallone Editore, 2023

Da “Guardare. Immaginare. Andare [L’occhio, la mano]

L’occhio (che è vedere, osservare, contemplare) conferisce alla scrittura leopardiana quella sua peculiare tessitura visiva e visuale che pone i luoghi in uno stato che definirei di vibrazione semantica così che guardare (o meglio dire, scrivere guardando) diviene anche andare, avviare itinerari della parola immaginante – nell’Infinito accade addirittura che proprio lo sguardo occluso («questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude») consenta la visione sia immaginifica che uditivo-acustica.

Si pensi allora a come la scrittura leopardiana abbia saputo indurre Mario Giacomelli a dare forma d’immagine fotografica alla stessa poesia e ai luoghi leopardiani, inducendo il medium fotografico a farsi commento, cioè testo in ininterrotto dialogo col testo (scritto) di riferimento e testo a sua volta di tale completezza e bellezza da essere capace di diventare opera d’arte autonoma, poiché la visione esige una percezione profonda del reale ancor prima che pensiero e immaginazione possano renderlo significante per la mente umana.

Giacomelli, che ha già una lunga consuetudine con i testi poetici, lavora tra il 1986 e il 1988 alla serie fotografica L’infinito, tra il 1987 e il 1988 alla serie A Silvia; l’ obiettivo del fotografo ha privilegiato nei decenni luoghi come l’ospizio, i paesi della provincia italiana, il seminario e vasti spazi come quelli della sua Senigallia e delle campagne marchigiane; ora, attraverso i testi leopardiani, Giacomelli guarda alle Marche come a luoghi immaginifici di un andare che è anche sperimentazione di sguardi nuovi: fotografa e alla prima immagine sovrappone o accosta immagini mosse od ottenute dopo doppia esposizione, trasferendo così la fotografia nei territori della visione trasfigurata e inattesa, mentale e destrutturante rispetto alla fotografia tradizionale di luoghi o di volti; l’infinito diviene, talvolta, l’indefinito, i contorni e i limiti dei luoghi sembrano muoversi o sfocarsi e letteralmente lo sguardo s’annega e il naufragio dei sensi è potenza che attrae e risucchia, il bianco e nero giacomelliano crea spazi mentali entro i quali è possibile vedere le innumerevoli graduazioni della luce e del buio, dell’ombra – è così che il poeta vedeva la siepe e gli spazi di là da quella per puro moto dell’intelletto e dell’immaginazione, in questo modo la sua scrittura stratificava le visioni del pensiero e del sentimento e fin dalle varianti rispetto alla pima redazione dei testi: stando al manoscritto conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli del celeste confine diventa de l’ultimo orizzonteun infinito è sostituito da interminato, immensità dapprima cassata in favore di infinità viene successivamente ristabilita, il mio pensiero s’annega diviene s’annega il pensier mio, la preposizione fra del nono e del tredicesimo verso viene sostituita con tra. Sappiamo che dopo il 1819, anno della prima stesura dell’idillio, Leopardi è ritornato più volte sul testo, anche a distanza di lungo tempo (e si tratta di anni cruciali e altamente drammatici per lui e per la sua poesia) – studiare i manoscritti, riflettere sulle varianti ci consegna alla comprensione della scrittura che, stratificandosi e obliterando le versioni precedenti, raggiungendo la versione considerata definitiva, è, in realtà, un processo, un andare, appunto, attraverso territori ritmici e lessicali (dunque anche immaginifici e concettuali) che offrono differenti radure di senso: aver preferito «l’ultimo orizzonte», «interminato» e «immensità» dice chiaramente quanto il senso si sia dirette verso il concetto di spazi che non hanno confini, limiti (non hanno termini e non sono misurabili – sono sine mensura) e non è più il cielo a marcare il confine («celeste confine»), ma l’orizzonte è ultimo lasciando intendere che lo sguardo dell’immaginazione si spinge ora oltre lo stesso limite terrestre, lo supera, continua, all’infinito appunto, il suo itinerario immaginante.

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