Su L’Estroverso, per la rubrica #1Libroin5W, Grazia Calanna intervista Martino Bosco.
Chi? I protagonisti dei vari racconti hanno contorni definiti dai margini delle cose che li circondano: privi di caratterizzazione psicologica, sono gli spazi vuoti lasciati dall’accavallamento di oggetti in rovina: branchi di cani che percorrono gioiosamente altopiani desertici spazzati dal vento, affittuari ossessionati dalla cura parentale di smisurati aracnidi, insulsi truffatori senza corpo che percorrono le strade di una città in rovina alla ricerca di una vittima, eserciti in rotta sotto l’assalto di santi armati di versioni violentate dei loro tradizionali attributi iconografici, innamorati delle malattie dei loro stessi corpi, scienziati sadici come demiurghi.
Cosa? I racconti sono ambientati in un mondo colpito da un’apocalisse a bassa intensità: alla distruzione fa posto un’estinzione progressiva: della materia, della luce e della memoria. La città è un cumulo di detriti senza storia in una notte perenne. Non esistono vie di fuga ma solo ripetizioni infinite della meccanica della progressiva rarefazione delle cose.
Quando? Dove? L’inizio della stesura dei testi risale a molti anni fa, in un periodo non troppo lungo ma avvilente di isolamento nei pressi di un lago dall’acqua nera. Immaginavo questo lago come il fondo rovesciato di un’anima cava il cui bisogno fondamentale era quello della produzione di immagini. La ferocia o la crudeltà delle stesse era irrilevante: ciò che in loro era essenziale era la ricostruzione di un fondamento immaginale al di sotto della superficie emozionale, in grado di rimarginare le ferite di quest’ultima.
Perché? L’immagina centrale, abbastanza celata, da cui si irradiano le altre che costituiscono le ramificazioni del testo, può ben essere rappresentata da quella descritta nel mito del rapimento di Persefone ad opera di Ade. Di fronte a questo evento, la madre Demetra reagisce catastroficamente con la disperazione più assoluta: è suo il vero precipitare definitivo e irreversibile nell’inferno: null’altro rimane della rappresentazione del mondo che il suo dolore. La reazione di Ecate, che pure assiste al rapimento, è ben diversa: sul vissuto emozionale prevale quello immaginale: osserva l’inferno, lo descrive, descrive se stessa mentre l’osserva: un intero nuovo mondo (infero ma strepitante di ricchezza) si apre di fronte ai suo occhi. Questa raccolta vuole essere un percorso di ricomposizione animica sulle tracce del modello di reazione ecatiana alla sofferenza.
Scelti per voi
Vaga Cane Feroce tra le pieghe chitinose di Città-Detrito e al cielo atroce di vuoto latra ridicolmente la sua bestemmia. Pioggia nera schiude le sue uova antiche, seminate da tempo in speranza di vendetta o almeno di replicazione. Morenti fori-occhi esplosi di buio fissano il catrame fallito: in esso si rispecchiano, amore mio, come cadaveri fabbricabili, incerti. L’età conclusa dell’odio divora infine se stessa, i suoi figli prediletti, assottigliati da silenzio prezioso. I suoi incubi sfatti sono la memoria che la nutre, ora che la materia del dominio è estinta, insieme al suo ultimo dio. (da “Città-Detrito”)
Accudisco con cura il suo splendore glabro ed essa mi conforta con la sua rapida crescita. Ormai il suo strobilo sinuoso si ripiega in spire dolenti fino al soffitto della stanza, colmandone gli anfratti più riposti. Il tepore del suo fiato riscalda la mia dimora desolata mentre fuori l’inverno continua ad uccidere i miei fratelli. Osservo instancabile ed affascinato lo scivolare incerto del suo corpo sulla complessità delle rappresentazioni che elabora senza tregua. Ne registro le fasi con accuratezza ossessiva. Lo scorso autunno sono venuti per farne cibo, per fare a pezzi il mio amore e sfamare con la sua carne preziosa i loro figli cenciosi; ma io li ho respinti: cureranno le loro ferite col rimorso dell’oltraggio che ci hanno arrecato. La mia bambina è una creatura silenziosa, perduta nella contemplazione della sua lucidità irraggiungibile; talvolta i suoi scolici penetrano leggermente nelle pareti come se lo sforzo meditativo cui è sottoposta le imponesse un ancoraggio più sicuro alla crudeltà inesorabile della sua prigione. Non ho difficoltà a soddisfare le sue modeste esigenze. I suoi occhi minuti le restituiscono implacabili il movimento incessante cui è condannata. Per questo ama il buio. Talvolta essa mi dona le sue uova ed il suo latte denso. Con essi curo la devastante malattia che mi affligge fin dalla più tenera età. (da “Mentre il Re delle Tenebre ardiva temerario inanellare il piede erratico colla purissima anima dell’innocente Bambola”)
Se invece quella altrimenti alata storpiasse sulle piatte ossa espugnate di screditata memoria, se sull’estinta razza stancamente calpestata calasse impietosa la sua molle arma procreatrice, se infine tacesse, ci toccherebbe aspettarla a lungo perché ogni buon organo rifiorisca di inconsapevoli petali di azzurra sclera trascorrendo gli infiniti giorni lieti a piumarsi altrove, là dove si raccoglie il cielo frattale, là dove calcifica il mare su rovine porose, per l’interminato sciame che invano ci allieta, strepitante vestigia di corpetto chiodato, del suo tempo che s’allunga e torce, sul martire ventre scorrendo in pieghe il tuo uovo sanguinante triploide, il tuo dono bianco, mia amata. (da “Infanzia di Apollinaria Suslova”) Martino Bosco (nella foto di Ghione Di Morena) è nato a Torino nel 1967. Medico, si occupa tra l’altro di sviluppo di sistemi di intelligenza artificiale applicati alla diagnostica istopatologica. Ha esposto a Torino in personali e collettive opere pittoriche e digitali ispirate alle mnemotecniche combinatorie di epoca barocca e alla ricerca alchemica. #1Libroin5W.: Martino Bosco, “Il pasto del dio”, Fallone Editore.