Su Le nature indivisibili una nota di lettura di Flavio Ferraro a Sentieri di Antonio Devicienti.
Lungo i sentieri di Antonio Devicienti. Di Flavio Ferraro
“Inizi da qui, da Palazzo Leopardi a Recanati, quest’itinerario della scrittura che concepisce sé stessa quale andare del pensiero e dell’immaginazione.”
Comincia così Sentieri, saggi e racconti sul corpo della scrittura (Fallone editore, 2023), e non poteva che recare questo titolo il libro con il quale Antonio Devicienti – fine germanista e critico letterario tra i più sensibili e penetranti – inizia il suo viaggio lungo il corpo della scrittura, avendo come guida e traccia quella che definisce, con un’espressione assai felice, “la parola immaginante”. E se questa parola, per sua natura, è instancabilmente in movimento, per seguirla occorrerà essere altrettanto irrequieti e al contempo guardinghi, in quanto l’andare si compie per sentieri impervi e accidentati; di qui la prosa danzante e traslucida che permette all’autore di condurre per mano il lettore e di tracciare – a mano a mano che ci si inoltra attraverso continenti e arcipelaghi di senso – una mappa dello sconfinato, lungo il meridiano del sogno e dell’immaginazione; sempre ponendosi in ascolto (o meglio, in auscultazione) del terreno che si va esplorando, cercando di coglierne le più intime vibrazioni, i più sottili smottamenti. Ci troviamo così a sostare in luoghi fisici e mentali tra i più drammatici e decisivi di quella che potremmo chiamare la geografia numinosa della poesia, loci di epifanica presenza e svelamento: Recanati, la torre sul Neckar, il ponte sulla Senna dove annegò la voce di Paul Celan, il Sud trasfigurante e dilatato di Ingeborg Bachmann. Giungendo infine, per citare due tra le voci più intense e ineludibili del nostro tempo, alla terra lucana di Domenico Brancale, dilaniata da innumerevoli grotte e pertugi, simili a ferite di luce1, a fenditure del respiro; o alla Torremozza2 di Alfonso Guida, concrezione simbolica e limpidamente visionaria di un’umanità straziata, ma che non cessa di dire le sue piaghe aperte, di esporle al miracolo incessante del vivere.
Ad ogni crocevia, ad ogni svolta del cammino il paesaggio muta, si procede per improvvise accensioni, per ricordi e suggestioni che fissano costellazioni di senso, stabilendo connessioni mesmeriche tra poesia e arti visive. Un cammino fatto anche di pause, biforcazioni e tentennamenti, dove non mancano acute riflessioni sulla natura di quell’atto magico e misterioso che è il guardare e su quei limiti i quali, impedendo l’erranza dello sguardo, ne accrescono la potenza immaginativa; limiti che la visione – sia essa fisica o interiore – non può che eccedere nella sua dismisura, nel suo perpetuo sconfinare, animata e sospinta dalla nostalgia dell’infinito. A volte, invece, ci sembrerà di esserci persi in un palazzo sterminato, aperto su lontananze imprendibili, dove si attraversano stanze e corridoi senza sapere quello che ci attende, perché le pareti sembrano dilatarsi e fuggire in dissolvenza, e specchi ed emblemi mai univoci (“Illeggibilità di questo mondo: tutto doppio3”, recita un verso di Celan) falsano le prospettive, capovolgono le coordinate, costringendo a mutare costantemente la postura del proprio andare (e del proprio scrivere andando). Tanto da dover procedere, talvolta, a testa in giù, camminando sulle mani e avendo il cielo come abisso, secondo l’immagine utilizzata da Celan nel fondamentale Meridian (ma si ricordi anche quel passo del Timeo, dove Platone afferma che l’uomo è come un albero rovesciato, dalle radici protese verso il cielo).
“Lo sapeva bene Matsuo Basho quando si metteva in cammino per lunghi viaggi a piedi dai quali non sapeva se sarebbe ritornato vivo nella sua capanna del banano; la poesia dell’andare e del guardare accoglie voci, volti, colori, pioggia, sereno, ma, si presti molta attenzione, non secondo abitudini di tipo impressionistico-turistico (alla maniera “occidentale”, insomma), bensì accordando la scrittura al passo del viandante-pellegrino, mente svuotata con precisi esercizi di meditazione affinché sia in grado non solo di accogliere il mondo, ma di riconoscersi tutt’uno con esso. Svuotare o cancellare sé stessi per diventare capaci di accogliere il mondo.”
Ecco, questo libro ci esorta a farci concavi, alveari della voce e del silenzio, e a rendere porose le nostre mani, affinché tutto raccolgano e di nuovo, aprendosi, tutto disperdano. Questo libro traccia una prima rotta, suggerisce uno dei tanti, possibili itinerari di un “atlante impossibile” (ma non è l’impossibile, in fondo, ciò che brama da sempre quella pianta celeste che è l’essere umano?), e si pone esso stesso come interminabile, rimanendo aperto ad ulteriori scoperte; perché il movimento del “corpomente” non può arrestarsi, ed ogni radura non sarà che la soglia verso territori ancora inviolati. Sia allora, com’è nel desiderio dell’autore, una mappa a disposizione di tutti i viandanti che vogliano mettersi in cammino, ignari di ciò che incontreranno nel corso delle loro peregrinazioni. Allontanandosi, è vero, da volti e luoghi conosciuti, ma sempre rivolti verso quell’ineffabile che irresistibilmente ci attrae nel suo accecante splendore.
Note:
1 In un recente libro di Brancale, il bellissimo e perturbante Dovunque acqua sia voce (Edizioni degli animali, Milano 2022), troviamo questo passo: “La luce è una ferita nel buio della carne. Sono una frase che si rimargina. Una parola che non ha sorelle. La sillaba che invoca il suono.”
2 Luogo del sigillo (Fallone, Taranto 2017). Non ci sembra di esagerare nel definire quest’opera di Guida uno dei vertici assoluti della poesia italiana dell’ultimo decennio.
3 Paul Celan, Poesie, a cura di G. Bevilacqua, I Meridiani Mondadori, Milano 2008, p. 1109.