Sabato 6 marzo – Recensione di Quaderno croato di Vanni Schiavoni su Via Lepsius

Su Via Lepsius:

La poesia è nomade: su “Quaderno croato” di Vanni Schiavoni

di Antonio Devicienti

 

 

Zoran Mušič: Cavallini, litografia, 1953.

 

Vanni Schiavoni pubblica presso Fallone Editore (nella notevole collana Il Leone alato curata da Andrea Leone) Quaderno croato. 12 poesie.
Il formato tipografico e il numero di testi accolti (sempre 12) sono ormai consueti per questa collana e ai miei occhi hanno un doppio merito: propongono spesso un libro già valido in sé, da leggere e meditare, ma tale libro è talvolta anche un nucleo da cui, forse, scaturirà un volume più ampio, offrendo quindi l’occasione di leggere un lavoro in fieri, seppur già saldamente delineato.
È del resto questo il senso delle parole stampate nell’aletta di copertina che mi piace riportare qui: «Il Leone Alato, specchio riflettente in nuce l’esplosione della nascita, è collana dedicata a plaquette di dodici poesie.
Così, sulla linea rettilinea del futuro prossimo, è periodo ipotetico, che, per profezia, non confuterà se stesso.

‘Il primo verso è sempre un dono degli dèi’ [P. Valéry]»

Questo Quaderno croato possiede una complessità e un’ambizione di pensiero e di scrittura davvero degne di attenzione per le ragioni profonde e i movimenti della mente che lo animano.

Se la dedica in limine suona Al mio cognome questo vuol dire che i 12 testi affrontano due dei cardini della poesia, vale a dire la questione della nominazione e quella dell’origine: il cognome Schiavoni è da riconnettere etimologicamente a Slavo e a Slavonia, quindi a schiavo, vale a dire prigioniero catturato in terre slave e ridotto in schiavitù – e si pensi, per esempio e non a caso, alla veneziana Riva degli Schiavoni, approdo e mercato dei commercianti provenienti dalla Slavonia, ossia dalla Dalmazia; il poeta scrive in Split a pagina 33: […] Tutto si specchia come in un contagio / a cominciare dal mio cognome / per finire col tuo profilo, nonostante sia spaesante / la sbilanciata conoscenza dei fattiQuaderno croato non è, allora, una sorta di resoconto in versi del solito tour estivo della Croazia, bensì – e in modo molto più profondo e significativo – una ricerca delle origini che si riconnettono, tra l’altro, alla nascita in terra salentina dell’autore, per cui la matrice adriatica sembra ritornare come in un cerchio carico di senso. Se nel XX Secolo e a maggior ragione in questi decenni incipienti del XXI c’è stato un autore che ha indagato con passione e profondità, con sapienza e dedizione il nostro essere mediterranei, ebbene questi è Predrag Matvejević: si possono allora leggere Salentitudine (LietoColle, Faloppio 2006) e Quaderno croato come due capitoli di una ricognizione del Mediterraneo nello spirito di Matvejević, ma anche (e in più) Quaderno croato rappresenta il riconoscersi, tramite il proprio cognome, in una terra d’elezione, in una regione della mente capace di generare un’opera in poesia.
Ma, ancor prima di approdare ai testi, c’è un secondo indizio, ossia vengono citati a mo’ di esergo alcuni versi di Jozefina Dautbegović, prima in croato e poi in italiano: L’ultima cosa che in ginocchio vide / San Marco il protettore del monastero / fu il sole attraverso il fumo / bianco e sottile / come un’ostia. Si tratta degli ultimi versi del componimento IL GIORNO IN CUI IL MONASTERO DA PLEHAN SALÌ IN CIELO scritto a Zagabria nel 1993 – il monastero francescano di Plehan era stato distrutto dall’esercito serbo nel 1992. Tutto questo significa che Vanni Schiavoni compie il viaggio croato perché riconosce le proprie origini psicologiche, culturali e umane in precisi accadimenti storici e la Croazia ne è l’epicentro:

Sebenico
[…]

In questo momento so esattamente chi sei
non è affatto necessaria una misurazione approfondita
so cosa pensi e quanto mi somigli nei turbamenti
perché per sempre saremo bambini
sotto i bombardamenti di Baghdad
siamo ancora ragazzini tra le granate di Mostar (p. 24).

L’intero Quaderno croato è infatti attraversato dal fantasma della guerra e delle stragi (altro che paesaggi da cartolina estiva!), indaga con sguardo penetrante l’oggi vedendo chiaramente i segni della distruzione e dell’odio lasciati da un passato non troppo lontano.
In realtà i 12 testi formano 6 coppie: il titolo del primo testo della coppia è sempre un toponimo croato in lingua italiana, il secondo è lo stesso toponimo, ma nella forma originale croata (Laghi di Plitvice / Plitvička jezera, Isole Incoronate / Kornati, Sebenico / Šibenik, Traù / Trogir, Spalato / Split, Ragusa / Dubrovnik) – anche in questo caso si riconosce l’attenzione dell’autore per i nomi (di Ragusa scrive, per esempio: Ragusa è i suoi cento nomi nel tramonto lunghissimo, p. 35), ché i nomi dicono e indicano, sono indici storici, culturali, linguistici ovviamente, formano una costellazione tra i cui approdi si muove la poesia di Schiavoni caratterizzata da grande tensione intellettuale:

Laghi di Plitvice

Il primo giorno precipita sempre nello stesso punto
quella rapida che arriva all’incontro
del fiume bianco col fiume nero
e più ci pensiamo pronti e gli occhi scaltri
più gli aggettivi non bastano allo stupore:
il verde spinge al delirio le pupille
le spinge dentro i torrenti lacrimanti accanto ai piedi
nell’oscurità acheropita degli antri in sequenza
e nelle spelonche verticali scolpite
come da una mano capace di tutto
[…]

(p. 15).

È lo stupore innanzi alla natura “non fatta da mano umana”, ma è anche il luminoso paradosso della poesia la quale, mentre dice la propria incapacità a dire (gli aggettivi non bastano allo stupore), splendidamente dice, nello stesso tempo, un’emozione e uno stato della mente. E, mentre affiora un dialogo tra un io lirico e un tu che ascolta e che è compagno (o compagna) di viaggio, interlocutore muto necessario, ecco la domanda:

[…]

a quale forma diresti uguale tutto questo
o almeno simile a qualcosa di già vissuto?
Sarà diverso da adesso ogni vortice dell’acqua
la spossatezza da una rampa di scale
la diffidenza per ogni cosa che nasca liliale
l’ombra attorno che si crede indelebile
e la notte che viene puntuale (pp. 17 e 18).

Le escavazioni dell’acqua nel calcare, il continuo mutare delle formazioni rocciose e l’aprirsi di grotte, il rosario di dighe naturali in continua mutazione divengono forma visibile della dialettica incessante e sempre in fieri tra passato e futuro, tra presente e passato, tra presente e futuro (e a ben pensarci, un cognome è soglia tra il passato della famiglia da cui si proviene e il proprio presente individuale, ma anche tra questi due tempi e il futuro sia immediato che più lontano – e non si dimentichi, inoltre, che anche il paesaggio salentino è caratterizzato da fenomeni carsici che fanno aprire fenditure, grotte, che fanno inabissare i corsi d’acqua, che rendono mobile un paesaggio apparentemente fermo).

 

Zoran Mušič: Rimorchiatori, 1949.

 

Ecco allora che il lettore intuisce che è il tempo uno dei grandi temi del libro, quello geologico della natura “acheropita” e quello storico e individuale dell’uomo.
Tra gli affioramenti delle isole Incoronate Schiavoni scrive:

[…]

Restiamo stupiti fino al consueto
di questo mare affollato da millenni
di questo mare che alimenta terremoti da sempre
e prevedibile il prossimo, calcolabile quasi
come una traiettoria senza attrito che è distanza
e insieme congiunzione invisibile e fisica
un presagio necessario nella retina segnata
dalle schegge dell’ultima scossa.

Sempre spinti a improvvisare
condensiamo in strappi la memoria (pp. 19 e 20).

Tempo e memoria, dunque, cercati e trovati in terra di Schiavonia, memoria e tempo che non placano inquietudini e presagi – il terremoto è sia fenomeno geologico, sia metafora riferita agli sconvolgimenti della storia e mi piace pensare la retina come la pagina sulla quale la scrittura va distendendosi e non immune dalle schegge dell’ultima scossa, non immune dagli urti della cosiddetta storia.

Kornati

[…]

I morti non sono tra noi
non in quest’ora del giorno
quando appaiono lo fanno ai bambini
come amici immaginari con la loro altezza esatta.
Noi ripensiamo alla nostra infanzia senza massacri
senza alluvioni o sismi, un gioco o una scommessa era tutto
quello che mocciosi avevamo da perdere.

Eppure questi attorno cresciuti dopo il peggio
sono ciò che l’occhio disconosce
ma la memoria della specie conferma.

Quando smetteremo di essere tentativi? (pp. 21 e 22)

Le infanzie mediterranee sono state in effetti diverse tra di loro: da decenni pacifiche quelle salentine, ben diverse quelle croate e jugoslave più in generale (lutti di fratelli in file di foto di ventenni anni novanta in Sebenico, p. 23) – e aggiungerei un pensiero per i bimbi siriani, poi per quelli maghrebini e della sponda meridionale del Mediterraneo che hanno dovuto seguire i genitori nell’emigrazione (ma neanche l’infanzia nell’Albania post.comunista né nella Grecia strangolata da un certo modo di amministrare l’Unione europea dev’essere stata serena); l’apparizione dei morti ai bambini è la chiara immagine del legame tra le più giovani generazioni croate e la guerra durante la quale si è dissolta la Jugoslavia (che chiamano guerra patriottica, in Trogir, p. 30). Si osservi lo stile di Vanni Schiavoni, capace di distendersi in versi liberi talvolta lunghi e capace di un’armonia interna al verso dovuta alla disposizione dei vocaboli che, insieme alla punteggiatura, suggerisce il ritmo della lettura, sempre limpido e armonioso e la poesia è nomade, ontologicamente nomade:

Šibenik

Ogni cosa come noi viene da altrove:
le colonne le sfingi le croci
le banconote nelle tasche, le bifore e il leone
i campanili conficcati come picche in attesa di teste
il furore di maestranze impiegate come fari da falene
e Venezia in filigrana (p. 25),

ma anche politicamente vigile:

[…]

Non si vedono le piattaforme al largo
la melma contaminata attorno e non c’è eco di trivelle
o scarichi di fabbriche a schiumare
solo natanti troppo rasenti
e una panoramica di scogli e di banchine (p. 26) – ricordo che Schiavoni proviene da una terra bellissima, ma anche criminalmente offesa: è la terra dell’ILVA di Taranto, delle trivelle nell’Adriatico, del TAP e della devastazione dovuta alla xylella fastidiosa e davanti al mare croato non può dimenticare tutto questo, né è cieco davanti ai guasti provocati dal turismo che, all’apparenza, porta benessere e lavoro, come recita un diffuso luogo comune.
Ma il nostro è un viaggio libero e se i cartelli sconsigliano / di muoversi fuori dai sentieri tracciati / una guardia è costretta a ribadirlo a muso duro / nella sua lingua rude e sconosciuta (in Spalato, pp. 31 e 32) – Quaderno croato è infatti un viaggio lungo le vertebre di questo paese (da Traù, p. 27) e dentro la memoria inabissata della generazione di Vanni Schiavoni (ma non solo della sua), è un viaggio per portare a contatto tra di loro i ritmi di una scrittura e la memoria del Mediterraneo.
E per me che attraverso Quaderno Croato la Spalato / Split di Vanni Schiavoni può essere il duplice testo che si conclude con un distico mirabile (L’aria sul muro di cinta rifrange / i flutti di vita sul lato dei pianti, p. 34) e anche l’enigmatica composizione di Gottfried Benn Welle der Nacht e la traduzione di Cristina Campo (Onda di notte): sono sempre le mura del palazzo imperiale di Diocleziano e quindi della città vecchia il fulcro dei due testi, ma nel caso di Schiavoni lo sguardo si apre su “flutti” che riconducono incessanti i pianti di vite che conoscono o hanno conosciuto il dolore e il lutto, là dove il testo benniano è sontuosamente e misteriosamente luttuoso e notturno. D’altronde scrive Schiavoni in Spalato (p. 31): Io cerco mosaici e roghi nella villa fortificata, innestando ancora una volta il suo viaggio-scrittura su riferimenti molto precisi – il poeta tedesco vede in Spalato l’ennesima immagine di un’incessante, sontuosa decadenza e di una tragica, definitiva perdita.

 

Zoran Mušič: Motivo dalmata, litografia, 1955.

 

Quaderno croato volge al termine, la guerra torna a mostrarsi nelle sue tracce: a Dubrovnik La devastazione è stata rimessa a posto / rinnalzati i colonnati / i cumuli di stele sono onde / e ogni masso una citazione da mura scorticate (p. 37), ma da qui / ogni angolo di mondo può essere visto (ibidem) e infatti è la poesia a essere luogo dal quale vedere ogni parte del mondo, esattamente come succede per Saba e Trieste, per Biagio Marin e Grado, per Espriu, per Riba e la Catalogna, per Adonis e Beirut: i toponimi nominano una scrittura, uno stile, un pensiero, quel pensiero, quello stile, quella scrittura guardano il mondo.

L’ultimo giorno in questa parte di Croazia
lo dimentichiamo rovesciato in mezzo
allo spiazzo spoglio dell’Assunzione:
è il punto focale, è raccogliere tutto (ibidem, p. 38).

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