Su Via Lepsius Antonio Devicienti scrive di Finzione. Esercitazioni di metrica classica di Luis Danieli.
Leggendo “Finzione” di Luis Danieli
Il gesto provocatorio e ironico che Luis Danieli compie con Finzione. Esercitazioni di metrica classica (Fallone Editore, Taranto 2024, Collana Il fiore del deserto), definito già nella Nota redazionale d’apertura del libro «un divertissement, ma pure una forma di protesta contro tipi di scrittura che parlano solo dello scrittore e non esistono in sé» (p. I), vuole essere un sasso gettato in un soporifero stagno di pagine e pagine egocentriche e vanesie, dilettantesche e approssimative per stile (o assenza di stile) e temi.
Danieli finge un manoscritto (tra l’altro interrotto e completato con pochi versi aggiunti) scritto in endecasillabi e in molti tratti in rima (vera e propria esercitazione in metrica italiana classica) impiegando il lessico e gli stilemi della tradizione italiana fino al 1825 – il che significa un lavoro minuziosissimo (un ricamo paziente, uno studio puntiglioso, un’archeologia del ritmo e dell’espressione, una cura maniacale della verosimiglianza) che è già in sé una prova di rara abilità sia tecnica che linguistica.
È in tal modo che Danieli cancella ogni traccia dell’io e di eventuali mondi interiori riversando ogni sforzo sull’architettura del testo, sul lessico, sul fedele svolgimento di temi desunti dalla tradizione lirica latina e italiana; il gioco (serissimo e al contempo ironico) è corredato da note a pie’ pagina che riportano precisi riferimenti letterari o spiegano certe espressioni o certi concetti con un tono didascalico degno anch’esso della migliore ironia. Non parlerei infatti né di parodia, né di sarcasmo, ma proprio di una modernissima ironia che, servendosi di stilemi metrico-lessicali ampiamente superati, esercita la sua sottile intelligenza critica nei confronti di tanta sciatteria stilistica, espressiva e concettuale che caratterizza molte pubblicazioni in versi di questi nostri anni.
Chi legge provi a pensare, infatti, a quale studio e a quale sforzo d’immedesimazione abbia dovuto profondere Luis Danieli per comporre un libro in tutto e per tutto simile a tanti di quelli pubblicati nel primo Ottocento, ricolmo di tutta la cultura (esclusivametne letteraria e classicheggiante) di cui era imbevuta la stragrande maggioranza dei poeti italiani di quei decenni (guarda caso corrispondenti ai primi due decenni e mezzo che stiamo vivendo in questo momento…)
Se Danieli è “fermo” a esattamente due secoli addietro, egli lo è con una scelta radicale che non rifiuta i duecento anni intercorsi, ma che rivendica la necessità del “saper scrivere in poesia”, di un multum invigilare lucernis che è studio “matto e disperatissimo” e anche (pure questo leopardianamente) studio che si muove tra i vari saperi e tra le varie epoche, che ironicamente si riafferma come puramente letterario, ma che tale non può e non deve esclusivamente essere.
Si assiste così a un proliferare della dieresi che, garantendo all’endecasillabo la sua numerazione sillabica rigorosa, si spinge fino al limite della propria applicazione e dell’effetto prosodico e sonoro: «Ma non a te, che ai tuoi gïorni cari» (p. 17), «Aterzïate del gïorno le ore» e «Ancora, ma qüesta sera quante» (p. 19), «Ai nuovi cesari il mäestro insegna» e «Ch’eran cari a qüesta vita incerta» (p. 25) – e potrei continuare a lungo l’elenco, ma credo sia chiaro quanto qui si voglia dire; il titolo stesso del primo componimento (Epitome in rima di un taglio di capelli, o sulla vanagloria, pp. 17-19) veicola l’ironia innescata tra il termine epitome (che vale “compendio”, ma che etimologicamente riporta a “taglio” effettuato nel testo originale per realizzarne, appunto, un compendio) e il taglio dei capelli, il tutto solennemente concluso con la didascalica espressione “o sulla vanagloria”; il tono di ogni componimento è solenne, di registro alto e per tornare ai titoli anche in questo campo si resta saldamente ancorati alla tradizione: Elegia di Tirsi sulle vicende di Perseo e Andromeda, e prima sulle sue (pp. 20-23), Ad Ottavio (pp. 24-27), Nel giardino dell’imperatore (pp. 28-32), Elogio al borgo di Ljetzan (pp. 33-37), Lavinia (pp. 38-42), Frammento di un carme giovanile di Tullio Cicerone (pp. 43-48).
Ignorare (o meglio: fingere d’ignorare) due secoli di poesia italiana per un verso vuole stigmatizzare la sciatteria stilistico-espressiva che inficia una parte di quanto si è pubblicato e si va pubblicando in Italia, dall’altra esercita il puro piacere del comporre, dell’intessere rime e figure retoriche, d’impiegare una lingua cristallizzata (in qualche modo “morta”) eppure ancora capace di deflagrare a inizio di millennio anche per denunciare quanto sia sempre più difficile identificare voci ben udibili e riconoscibili nel marasma di rumore e d’indigesto poetichese che anche la “rete” contribuisce significativamente ad accrescere.
Il gioco di Luis Danieli è quindi molto serio come dev’essere ogni gioco che si rispetti, chiama in causa intelligenza e cultura, con raffinatezza scopre inanità e vizi della poesia contemporanea.
Ad Ottavio Già ti sovrasta, amico di Academo, Di me per sempre la memoria estinta, L'ultima ebrezza che alfin ci perde? O fatto stanco, sul tuo scranno in cielo, Siedi contento, tu a cui le ore il passo Ndei tanti uffici ti cedeano esauste, E nuovamente a le tabelle di ieri Assisti, simile i distratti alunni Alla lezione che ripete a 'gosto? Sei ancor tu qual fosti? per che oltre Se più non fremi, se il tosco esempio Non ti rïempie d'onta, e quel silenzio, Che o forse pregio, o che forse danno, Che fu risposta a tanti biechi inganni, Se quel silenzio ti ha lasciato andare E in ogni istante, lì 've il tempo esilia, Quasi confetto di quest'altro regno, canti perenni con la lira salmi, Allora finalmente sei nel tutto, Sì, qüel tutto, che a me non basta. [...] (p. 24)