Venerdì 14 Giugno 2024 – Mattia Tarantino su La Fionda

Su La Fionda Ilaria Palomba scrive di Se giuri sull’arca in una lettera a Mattia Tarantino.

Lettera a Mattia Tarantino


Caro Mattia,

la storia che racconti nel tuo poema Se giuri sull’arca (Fallone) composto di tre sezioni: Se giuri sull’arca, Sciababàb, l’Ermeneuta è una storia di villaggi ventosi, di carovane, di domini delle ombre, del nuovissimo e dell’antichissimo incontro tra civiltà archetipiche. Vorresti la voce ti parlasse in un dialetto celeste dove il fuoco è acceso e il villaggio più vicino, carovane fuggono, si aggrumano, rastrellano l’onnipresenza della morte. Non esistono occhi. Convulsioni nelle province dell’ombra. Parlami, dici, e scrivi, in una lingua che assimila il fonema, il significante puro, alla disgregazione non significante, schizoide, deleuzianamente antiedipica. È questo grado zero della vita che racconti, accompagnato da uccelli rapaci, suoni di chitarra melanconici come il lamento del mondo scomparso: il Rapporto dalla città assediata di Zbigniew Herbert, o Voragine di Andrea Esposito, riferimenti semantici a La specie storta di Giorgiomaria Cornelio.

Questa fine, questa guerra da cui ci si rifugia nei cunicoli per divorarsi, è come se l’avessi vissuta, vissuta nelle membra. Una visione dal passato, dal presente e dal futuro. Una visione residuale. Ciò che resta è la voce. Se tutta la lingua è un’orma, dici. Si riuniscono in piazza e parlano la lingua delle ortiche. Trovano il sangue di bestia, e la bestia non è che un amuleto per la festa. Arrivano le carovane dalle città di stelle gialle e muschio, arrivano da Oriente, o da un assoluto altrove, dove la lingua non è comprensibile e il moto convulso è quello dei manicomi. Penso a Gerusalemme, o a Gaza, o al Santa Maria della Pietà. Ma la potenza della tua poesia è di sovrastare il presente, desertificando i riferimenti. I nomi sono incastonati tra le porte e il nulla, dove nessun angelo più passa, l’angelo rilkeiano non fa più paura perché la storia è stata già divorata dalla non storia.

È l’impersonale in Blanchot, l’oscuro, quel Thomas che cercava nella sua morte un’altra vita, la cura per l’altro nel riconoscerne il volto. La donna che sceglie d’amare è una visione. Nell’allucinazione tutto si fa lucidissimo. Il futuro è passato e il trascorrere ci lascia inermi in una civiltà tribale. È la culla del disastro, è creare una tribù di sopravvissuti al disastro. Tu lo fai dissacrando la lingua in una congiunzione sonora, un grammelot che è giuntura tra lo smembramento del corpo sociale e la non lingua. Sciababàb. Sciababàb. Si balla, si scuoiano maiali, e la lingua diviene un incubo. Loro gettano pietre sul selciato, accendono fuochi, sospendono il segno tra gli ingranaggi del fuoco. La lingua, ancora la lingua, è inaccessibile. Polizia dell’abisso, dici, scandagliate le porte. La furia di un rito dionisiaco dove la testa del porco è agganciata alla testa di ciò che resta dell’uomo, mentre il diavolo fa girare la ruota del nulla. Dispersi. Fuggiaschi. Si torna al villaggio ed è tutto bruciato. La guerra ha sterminato il villaggio. Un tradimento. Una maledizione antica che ancora non abbandona l’umano, lo rende inumano. Mi hai raccontato come nasce Sciababàb: «Alla mia festa di laurea, un amico, Dario Ferrara, lesse un poema su di me, su di me che abitavo un villaggio, e parlavo dicendo solamente Sciababàb, come fosse l’unica parola al mondo, o l’unica che conoscessi. Quel testo nasce per rispondergli. Perché la lingua – questa poltiglia, ovvero, che chiamiamo ‘lingua’ e che codifichiamo, amministriamo, normiamo -, se può trovare altre traiettorie, è bene che le intercetti, che le incroci, ci sguazzi. Farci un guazzabuglio, con la lingua, una brodaglia luminosa, che installi l’orlo cui si espone e ci dica: Sei in cammino.

Prendi, per esempio, Dimitris Lyacos. È un poeta greco che non ha mai pubblicato un volume in Grecia. Qualche anno fa, per Il Saggiatore, è stata pubblicata la sua trilogia – che lavora e modifica instancabilmente da quasi vent’anni, o più -, _Poena Damni_. Cos’è? È un frammentario, pieno di cancellature, traduzioni dal Nuovo Testamento, una storia di fuga, ospedali, campi, punti di presa delle istituzioni sui corpi. Ecco, i poeti – come te, come amici che conosciamo, che _riconosciamo_ – forse sono questo, forme di vita che strisciano dove poteri e linguaggi si toccano, si indeterminano, e provano a sospendere questo contatto, a indicare – o farsi – un varco. _Sciababàb_ è questa cosa qui. Una carovana, appunto, o un deserto attraversato. Sicuramente qualcosa che scorre, ariosa.»

E allora ti ho chiesto dell’Ermeneuta, Mattath, hai risposto: «Mattath é il mio nome. È l’etimo. Il dono, da un lato, dall’altro il tetragramma. _Non può che significare_. Alle volte sarebbe bello disinnescarla, la significazione, invece, esserne espulsi, liberati.»

Nella prima sezione riecheggia Beckett, e qui, ancora, lascio a te la parola e la madre, per smembrarla:

XI

Nostra Madre è arrugginita nella grotta. Nostra Madre del Grasso, del Ferro. Nostra Madre Pastafrolla. Nostra Madre, l’Arcaterra, Testanulla. C’è qualcosa che passa, qualcosa che striscia. Ossa che scricchiolano, le tue ossa che scricchiolano. Adesso che le stelle collassano una scossa passa loro nell’ombra. Se giuri sul Regno non incroci le dita. Se giuri sul Regno ogni volto è una soglia. Quando il Regno è scoppiato parlavamo del Nulla. Quando l’arca è salpata sognavamo una terra. Le tue ossa che scricchiolano se le stelle collassano. Se l’arca è salpata lo abbiamo detto alle ombre. C’è qualcosa che striscia, Nostra Madre La Serpe. Nostra Madre bruciata sull’arca, Aphinar arenata. I campi che fumano, il nostro corpo è celeste. Se giuri sull’arca sarà il Regno a bruciare.

Di: Ilaria Palomba

 

 

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